Scrivendo di Baudelaire niente può essere lasciato al caso. Così vale per le Lettere alla madre, miracoli di disperata umanità; così è per le collere de Il mio cuore messo a nudo; così per le rapide note di Povero Belgio; sempre risuona la voce straordinaria del «profeta più desolato dopo i profeti d’Israele», per usare le parole di Proust.
Charles Baudelaire è stato probabilmente il più importante poeta del suo secolo, e di molti altri. La sua prosa impareggiabile di critico d’arte ne aumenta la trasversalità e lo pone come figura irrinunciabile d’ascolto per artisti della sua epoca come Manet, Guys, Delacroix ecc. Con Baudelaire è come viaggiare alla fine del superlativo: «re dei poeti, un vero Dio», lo definiva Rimbaud. Che pure non mancava di imputargli di essere cresciuto in «ambiente troppo artistico».
Baudelaire, come molti tra i più grandi poeti – a differenza di quello che generalmente si crede – è figlio della buona società, per non dire, nel suo caso, dell’alta società parigina. E come spesso capita, l’estrema sensibilità – il poeta è in media una persona più debole degli altri uomini, per dirla con Kafka – l’ha portato a vivere da declassato. A subire umiliazioni. Un esule nella sua stessa Parigi: essere a casa nell’esilio. Nell’accezione più asciutta: un dandy radicale.
L’alimentata leggenda – «non era altro che il riflesso del suo disprezzo per la stupidità e la mediocrità boriosa» – ci permette di conoscere l’humour noir di Baudelaire, aspetto ancora oggi tra i più sottovalutati del poeta parigino e in grado di crearne una reputazione volutamente e apparentemente sconcertante. A un passante che si rifiuta di dargli del fuoco per non far cadere la cenere del sigaro dice: «Mi scusi, signore, vorrebbe avere l’infinita compiacenza di dirmi il suo nome? – Vorrei ricordare il nome dell’uomo che desidera conservare la sua cenere». A un borghese che vantava i meriti delle sue due figlie: «E quale delle due giovani avvierete alla prostituzione?». Affermava: «Ciò che è inebriante nel cattivo gusto è il piacere aristocratico di dispiacere». Il poeta maledetto: il precursore… è stato scritto tante e troppe volte: un brand suggestivo: un luogo comune. Mai parole più profetiche dai suoi Razzi: «Creare un luogo comune è genio. Devo creare un luogo comune». Ancora oggi questo maledettismo è spunto facile per registri “artistici” tra i più disparati e discutibili, ma quali testi si conoscono veramente di Baudelaire? Al di là delle etichette è questo che dovrebbe valere: leggerlo. I testi di Baudelaire sono una fonte inesauribile di scoperta e bellezza e, a differenza di ciò che pensava Sainte-Beuve – sicuro nel suo metodo di giudicare il poeta attraverso l’uomo… – con Baudelaire un lettore che volesse auspicabilmente diventare quell’iniziato, ipocrita, simile e fratello, dovrebbe disporsi oltre quell’altra ipocrisia del solo risultato estetico.
La sua opera, il suo sentire, ha seguito sin da principio un percorso stilistico «fedele al suo doloroso programma», fisiologico. Così la forma perfetta e implacabile dei sonetti dei Fiori del male, marmo e morbo, come ricorda Valerio Magrelli; molti composti che non aveva ancora venticinque anni.
Se oggi gli rendiamo omaggio, a duecento anni dalla nascita, è vero anche che sono centosessantaquattro gli anni dalla stampa dei Fiori – esiste forse un libro di poesie più famoso? Un libro «della più salda unità» architettonica che andrebbe letto rispettando la rigorosa e voluta disposizione dei testi. Lui stesso scriveva, tra speranza e sfiducia, in una lettera precedente alla seconda edizione, del 1861, «I Fiori del male sono in stampa. Terribile faccenda. È un libro che si venderà sempre, a meno che la giustizia non se ne immischi di nuovo». Della prima edizione (1857) furono condannate sei poesie. Più aurea che aureola del poeta. Il suo genio – terribilmente più forte della sregolatezza – resiste alle lusinghe dei Paradisi artificiali.
Percorso, dicevamo, sempre in divenire: i piccoli poemi in prosa de Lo Spleen di Parigi. «Chi di noi non ha nei suoi giorni d’ambizione, sognato il miracolo di una prosa poetica, musicale senza il ritmo e la rima, tanto mutevole e precisa da adattarsi ai movimenti dell’anima, alle oscillazioni della fantasticheria, ai soprassalti della coscienza?»: prose formidabili che hanno il raro dono dell’immediatezza. (Azzardo una sequenza, magari verosimile: il Bertrand del Gaspard de la Nuit – il Baudelaire dello Spleen – il Laforgue delle Moralità leggendarie). E quindi i frammenti delle opere finali, parzialmente compiute, anticipatori di tutta una riflessione che nel Novecento troverà, proprio nel frammento, una delle forme più caratterizzanti e abusate.
Anche aprendo i suoi libri a caso, non si sbaglia mai. Fulminante gusto per le massime esplosive e le definizioni disseminate ovunque. L’abitudine perduta di pensare in versi che si stagliano sulla pagina, peculiarità dell’epistolario ricco di citazioni. L’aspetto che ci avvicina Baudelaire è l’illusione di vedere un uomo come noi, pieno di dissonanze e contraddizioni, di vizi, il prototipo del poeta legato indissolubilmente alla città, lontano dalla tanto odiata Natura. Vicino, cioè, a quello che da sempre, e a torto, viene ritenuto come impoetico. La modernità di cui tanto si è detto in merito a Baudelaire è un paradosso. La poesia Il Cigno ne è l’emblema. Baudelaire è il solo che, in quella fase di cambiamento sostanziale e architettonico della città in metropoli, ripensi alla vecchia Parigi, alla vecchia Place du Carrousel, campo di baracche di cui aveva scritto anche Balzac: «i nostri nipoti, che vedranno senz’altro il Louvre terminato, si rifiuterebbero di credere che una simile barbarie abbia potuto sussistere... nel cuore di Parigi, di fronte al Palazzo dove tre dinastie hanno ricevuto l’élite della Francia e quella dell’Europa». Una perdita di ricordi irreparabile, una perdita che soltanto per chi vaga solitario nella grande città – soltanto per un poeta in fondo – può diventare lancinante.
Baudelaire ci insegna che la grande poesia pesca in basso. Ecco, quindi, le vicende inferiori: Il Vino dei cenciaioli, Le Vecchierelle, le stupende prose La moneta falsa, Le finestre,Il vecchio saltimbanco, Le vedove, Lo straniero, All’una del mattino; e ancora L’Amore della menzogna, Raccoglimento e i versi-da-mandare-a-memoria di A una passante, esperienza irresistibile di choc e eternità a un tempo.
Edgar Allan Poe, al quale Baudelaire riconosceva il merito di avergli insegnato a ragionare, scriveva: «Passare per infinitamente debole proprio perché si è infinitamente forte: non è questa una tortura talmente raffinata che l’Inferno stesso non ne conosce l’eguale?». Baudelaire ha scritto, con sprezzatura incomparabile e pietà sublime, di queste intermittenze, dell’orrore che penetra nelle ossa, trascinandosi oltre se stesso, affondando in se stesso, talvolta avvelenato, ferito, sempre con abbagliante lucidità.
In un discorso mai pronunciato su Baudelaire, l’amico Asselineau aveva appuntato queste parole: «Non scoraggiate i poeti. Ne avete uno; guardatevi bene dall’umiliarlo». Charles Baudelaire moriva a Parigi tra le braccia di sua madre il 31 agosto del 1867 a quarantasei anni.
Alessandro Pancotti
TRISTEZZA DE LA LUNA
Stasera la Luna sogna più languidamente: come una bella, che su numerosi cuscini carezza prima d’addormentarsi, con mano distratta e leggera, il contorno del suo seno,
sul serico dorso delle molli valanghe, morente ella s’abbandona a lunghi smarrimenti e gira i suoi occhi su le bianche visioni che salgono nell’azzurro come inflorescenze.
Quando talvolta, nel suo languore accidioso, essa lascia cadere sulla terra una furtiva lagrima, un pio poeta, nemico del sonno,
prende nel cavo della mano quella pallida lagrima dai riflessi iridati come un frammento d’opale, e la mette nel suo cuore lontano da li occhi del Sole.
(Prima traduzione italiana in prosa di Riccardo Sonzogno, ne I fiori del male, Edoardo Sonzogno Editore, Milano 1893)
*
A QUELLA CHE È TROPPO GAIA
La tua testa, il tuo gesto, il tuo aspetto sono belli come un bel paesaggio; il riso scherza sul tuo volto come un vento fresco in un cielo chiaro.
Il viandante malinconico che tu sfiori a pena è abbagliato da la salute che sprizza come luce da le tue braccia e da le tue spalle.
Li smaglianti colori, di cui semini le tue acconciature, gettano ne lo spirito dei poeti l’imagine d’una danza di fiori.
Quei folli abbigliamenti sono l’emblema del tuo spirito stravagante; pazza, di cui sono pazzamente invaghito, io ti odio quanto ti amo!
Talvolta, in un bel giardino dove trascinavo la mia accidia, ho sentito il sole lacerarmi il seno come un’ironia;
e la primavera e il verde hanno tanto umiliato il mio cuore, che ho punito su di un fiore l’insolenza de la Natura.
Così vorrei una notte, quanto l’ora de le voluttà suona, come un vile arrampicarmi senza rumore verso i tesori de la tua persona
per castigare la tua carne festante, per ammaccare il tuo seno perdonato e fare nel tuo fianco intorpidito una ferita larga e profonda,
e, vertiginosa dolcezza! traverso queste novelle labbra più splendenti e più belle infoderti, sorella mia, il mio veleno!
(Traduzione di Riccardo Sonzogno, in Reliquiae, A. Locatelli e C. Editori, Milano 1895)
*
LE VEDOVE
Vauvenargues dice che, nei giardini publici, vi sono certi viali dove bazzicano più volentieri gli ambiziosi delusi, gli inventori sfortunati, coloro la cui gloria è andata in fumo, o il cuore dei quali è rotto: tutte quelle anime, insomma, chiuse, tumultuose, dove soffiano ancora gli ultimi buffi d’un uragano, e che si dilungano dallo sguardo degli oziosi e dei felici. In quei luoghi ombrosi, sin dan la posta tutti gli storpiati della vita.
È, soprattutto, in quei luoghi che il poeta e il filosofo, avidi di congetture, si dirizzano e trovan pascolo certo per le loro anime; giacchè, se v’è un luogo che essi sdegnino visitare, è quello dove i ricchi godono. Il tumulto nel vuoto non ha allettamenti per loro, che si sentono invece irresistibilmente invogliati da tutto quel che è debole, ruinato, triste, orfano.
Un occhio intelligente non s’inganna mai. In quei lineamenti rigidi, abbattuti, in quegli occhi affossati, appannati, lucenti degli ultimi lampi della lotta, in quelle mille rughe profonde, in quell’andare o lento o a balzi, indovina le innumerevoli leggende dell’amore ingannato, della devozione disconosciuta, dei sacrifici che non hanno avuto compenso, della fame, del freddo, umilmente e in silenzio sopportati.
Avete visto, alle volte, qualche vedova, qualche povera vedova in quei sedili solitarî? Portino o no il lutto, le vedove è facile riconoscerle; chè v’ha sempre nel lutto del povero qualcosa che manca, qualcosa di disarmonico che lo rende più straziante. Il povero è costretto a lesinare col suo dolore. Al dolore del ricco non manca nulla mai.
Qual vedova è più triste, qual vedova affligge di più, quella che trascina per mano un bambino col quale non può dividere i sogni, o quella che va tutta sola? Non so, per me..... Una volta m’avvenne di seguire, per ore ed ore, una povera vecchia, sola, mesta, diritta, avvolta in uno scialle sciupato, e la quale aveva in tutta la persona una fierezza da stoica. Era, senz’altro, condannata dalla sua completa solitudine a vivere come un vecchio celibe, e i suoi modi maschili aggiungevano qualcosa di mordace, di misterioso alla austerità dei suoi costumi. Non so in qual povero caffè e come abbia fatto colazione. La seguii fino nella sala di lettura; la osservai a lungo mentre cercava nelle gazzette, con occhi attivi e che avean dovuto molto piangere, una notizia che dovea avere per lei una seria importanza. Finalmente, il dopo pranzo, sotto uno splendido cielo d’autunno, un cielo d’onde piovono i rammarichi e le memorie, sedette sola, là in un giardino, per sentire, lungi dalla folla, una di quelle musiche, che le bande militari regalano ai Parigini. Era, senza dubbio, quello l’unico stravizzo che si permettesse quella vecchia innocente (o quella vecchia purificata), tutta la consolazione, in una di quelle lunghe giornate, senza amici, senza ciarle, senza gioia, senza famigliari, che Dio lasciava cadere sulla testa di lei forse da molto tempo, trecentosessantacinque volte ogni anno.
Ancora un’altra.
Io guardo sempre con un occhio, se non benevolo, almeno curioso, quella folla di paria che si accalca a un ricinto d’un concerto pubblico. L’orchestra manda a traverso le tenebre i suoi canti di festa, di trionfo, di voluttà; le lunghe vesti luccicano, gli sguardi s’incontrano, gli oziosi, stanchi d’aver fatto nulla, si dondolano, fingendo di gustare indolentemente la musica. Qui tutti son ricchi, tutti felici; nulla che non respiri o che non ispiri la spensieratezza ed il piacere di sentirsi vivere; nulla, eccetto la vista di quella folla che si appoggia, laggiù, alla barriera, e coglie gratis, come il vento la porta, un po’ di musica, e guarda la viva luminaria che splende là dentro.
È sempre una cosa che commove il riflettersi della gioia del ricco in fondo all’occhio del povero. Ma, in quel giorno, in mezzo a quel popolo vestito di camiciotti e di mussolina, io vidi un essere, la nobile faccia del quale faceva un gran contrasto con la trivialità circostante. Era una donna alta, maestosa, d’un aria sì nobile che io non ricordo di aver mai visto qualcosa di simile nelle collezioni delle aristocratiche beltà del passato. Un profumo d’altera virtù esalava da tutta la sua persona; il viso triste ed emaciato rispondeva appuntino alle gramaglie che la coprivano, ed anch’essa come la plebe, in mezzo a cui era confusa, e di cui non s’accorgeva nemmeno, guardava con occhio profondo il cerchio luminoso, ed ascoltava, scrollando un po’ la testa.
Strana visione! “Certo, io dissi, quella povera lì, seppure è una povera, non può mica pensare al sordido risparmio di pochi soldi; la sua nobile faccia mel dice. Perché dunque resta volontariamente in mezzo a una folla, tra cui essa spicca come una splendida macchia?” Ma, passando per curiosità allato a quella donna, io credei indovinarne la ragione. Quella vedova teneva per mano un bambino, come lei, vestito a nero; e, per modico che potesse essere il prezzo d’ingresso, quel tanto bastava forse a pagare uno dei bisogni di quell’essere piccino, o, meglio, un nonnulla, un giocattolo. Ed essa sarà tornata a casa a piedi, meditando sempre e almanaccando, sola, sempre sola, giacchè i bambini son torbidi, egoisti, non han nè dolcezza, nè pazienza, e non possono nemmeno, come le pure bestie, come il cane, come il gatto, servir da confidenti ai dolori solitarî.
(Traduzione di G. Ragusa Moleti, in Poemetti in prosa, Fratelli David Editori, Ravenna 1880)
Comments