«La notte è l’ombra del giorno, se non altro il margine e sui margini dell’esistenza, dello stare al mondo si concentra la vita vera», scrive Iuri Lombardi. È di notte, infatti, che circolano gli abbietti e gli emarginati, mentre il borghese riposa. È con la notte che si fugge la vita. Di notte il poeta si mette a scrivere, perché al contrario «la vita / non è capace di scrivere in versi». Céline, del resto, fece proprio della notte uno spartiacque: se si riesce a dormire, va tutto bene.
Con il Dizionario delle notti (Arcipelago Itaca, 2020) Iuri Lombardi torna a un tema cardine della sua poetica: l’esclusione dalla storia. Incontrato tra Le Ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo di Pasolini, Lombardi ha poi declinato questa esclusività in una chiave radicale. Come nota Stelvio Di Spigno nella prefazione: «a volte sono i tempi a fare gli uomini, e non gli uomini a fare la Storia (la metto apposta con la “S” maiuscola). E lui di questi tempi ci parla». È per questo che il Dizionario trova tra i propri espliciti modelli l’epicureismo oraziano e il De rerum natura di Lucrezio, così che «il livore delle notti è va inteso non tanto come evento fisico quanto morale».
Ci si muove tra Roma e Firenze e ci si sposta nel solo tempo presente, quello magico del carpe diem, il tempo che elude la storia, perché coglie la storia nel suo farsi, con la consapevolezza che «Di una città il senso lo fanno le persone». Fatta eccezione per il requiem che chiude la raccolta, il poemetto (genere che Lombardi non ha mai abbandonato) dal titolo Notturno rupestre e non a caso dedicato a una notizia di cronaca: la scoperta in Inghilterra di un paio di scarpette appartenute a un bambino durante l’epoca imperiale romana. Uno dei tanti esclusi dalla storia che grazie alla poesia ha trovato una voce. «Noi a nulla apparteniamo e dell’età / industriale siamo comunque il dopo».
Antonio Merola
a Gabriele, che la poesia ti sia perpetua
Il sei come il primo d’ogni mese
non si può morire, il due o il tre neppure
qui od oltre, dove si spegne la terra;
non ci è dato morire il sedici,
in quel giorno la luna è già alta
e la nave insabbiata stenta il salpo;
Cristo in pensione incassa la mutua:
non promette più miracoli né nulla
ed è probabile che la lettiga
di Lazzaro comunque sia vuota
così ogni loculo di fuoco fatuo.
Noi apparteniamo sempre a qualcuno
pur non sapendo. L’amore spesso
è il pane che ci nutre, appena sfornato.
*
Quando morirò te lo dico,
come i gatti presso un margine,
nascosto ai più mi inoltrerò;
straniero italiano per le vie di Roma.
Credo che non possiamo più
considerarla capitale:
se non l’evidente di una bellezza paleolitica.
*
L’abbiamo fatto mille volte contro
il muro, in piedi, felici ondeggiando:
è una questione di equilibrio il tenersi
in allerta tra i fusti degli alberi bui
– mi davo a te come un bimbo alla fiaba?
Dimmi adesso a cosa pensi? Luccica
una scia nell’incurvatura della notte;
forse è solo la cometa annunciatrice:
il redentore diserta il suo arrivo.
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