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La poesia femminile in Italia


Vi presentiamo una breve panoramica antologica sulla scrittura femminile in versi degli ultimi decenni, cercando di lasciare spazio alla poesia stessa – che, quando è buona, non ha bisogno di effetti speciali o protesi critiche.

Abbiamo anche provato a pensare in cosa si potesse distinguere la scrittura delle donne rispetto a quella degli uomini. La risposta non l’abbiamo trovata, perché nel lavoro di ricerca sulle nuove voci che svolgiamo da anni, non abbiamo mai guardato il passaporto, il sesso, ma solo la qualità delle proposte. Possiamo però constatare che, rispetto al passato, le donne che scrivono in versi sono forse più numerose, chissà anche perché più visibili. Non hanno il timore di confrontarsi nel corpo a corpo con i lettori, di difendere giustamente la loro opera. D’altronde, la scrittura femminile è sempre stata parte integrante dei processi letterari. Sembrano cose banali e scontate ma è sempre meglio ricordarle.


Se del Secondo Novecento la regina incontrastata è certamente Vivian Lamarque, che i posteri sapranno anche riscoprire nella sua dimensione più profonda e dolente, meno visibile, noi partiremo da un autrice nata alla fine degli anni Sessanta come Mary Barbara Tolusso, che è anche narratrice, con due romanzi come L’imbalsamatrice e L’esercizio del distacco (Bollati Boringhieri 2019). Dal 1998 si occupa con profondità di critica teatrale e letteraria per quotidiani e riviste. Ha pubblicato le raccolte L’inverso ritrovato (Lietocolle 2003),Il freddo e il crudele(Stampa 2012) e il recentissimo Apolide, nella mitica collana dello Specchio Mondadori. Decisamente antiromantica - «Che vuoi che ti dica sotto / la coperta ruvida di un albergo a ore?» - si muove tra «nuovissimi traffici» e «scabre adiacenze», accoglie il tema relazionale per smontarlo con lucidità: «Gli innamorati si amano senza / alcun merito… i loro occhi / vanno in coda all’infinito». Non più per educande, l’io lirico «legge le pareti degli orinatoi». Più che di tensione morale, dovremmo parlare di trazione estetica: una nitidezza che rende queste pagine un rifugio per il pensiero, in un paesaggio «alla Van Dick». Le parole evitano «accuratamente la strada / della tenerezza», ma la bellezza affiora nonostante la ruvidità, con «una grazia / insuperabile, senza animo». È l’immaginazione stessa a strutturare la scena: «A casa non ci sono / gatti, ribalte, mappamondi, ma vestiti di serie in armadi / di serie». Tutto è plastico e definitivo: «la pelle soda, rasata sul gonfiore. Dentro è tutto/un vuoto ben curato. Tengo il sesso per un angolo».


Continuiamo con Silvia Caratti, che si è occupata di archivistica musicale e ora insegna nelle scuole. Nata nel 1972 a Cuneo, dove vive, è diplomata al Conservatorio e laureata in Lettere all’Università di Torino, con una tesi su Brahms. Le sue poesie, sapientemente cadenzate e insieme asciutte, sono incluse nelle principali antologie della sua generazione, quella di Mario Santagostini I poeti di vent’anni (Stampa 2000), Nuovissima poesia italiana di Maurizio Cucchi (Mondadori 2004), Almanacco dello Specchio (Mondadori) e nella recente Velocità della visione (Fondazione Mondadori 2017). Ha esordito nel 2001 per Lietocolle con La trama dei metalli (Premio Matacotta). Alcuni inediti sono presenti nel Bisestile di poesia 2016 (Edb) e, sempre nel 2016, ha pubblicato il suo ultimo libro, Lettere per un ritorno (Arcolaio). La poetessa piemontese ha sempre utilizzato «le fibre del cuore ondulate» per realizzare, nel suo particolare laboratorio lirico, tra «vetrini», «teche» e formalina, un’«esposizione universale» del dolore. Il tema amoroso non è mai stucchevole nella dissezione affettiva: «Potessi stare in una circonvoluzione / sondare la pia madre / andare a stanarti. / E sventrarti. // (hai paura, amore, delle dure parole?)». Così la coppia diventa strumento di indagine: «buio delle tue corone / che sondo con la lingua». La pagina fa attrito, è «l’aspirazione alla materia… il segreto spugnoso tessuto delle vertebre… È l’esposizione della materia / che cova umida e ingabbiata / che vive di vita propria e pulsa / difesa dallo spesso osso sternale / che ti vorrei spaccare amore. E entrare». Una cadenza prosciugata, un linguaggio verificato, ricondotto a un canzoniere del disamore. Il sentimento è crudele e insieme violentemente dolce: «Spezza, ti prego, anche me e insieme lasciami intera, / distribuiscimi con le tue mani / al bordo di questo letto. E ricomponimi».


E non dimentichiamo la visionaria Francesca Moccia. Nata nel 1971 a Benevento, oltre all’emarginazione che vive il poeta nel mondo contemporaneo, subisce anche i limiti di una provincia estremamente isolata. È una poetessa difficile, visionaria, dal linguaggio spezzato. La sua scrittura compatta «assorbe la dimensione al suo interno», «produce ombre» e teme «che si geli l’acqua quando sta nuotando». Un «limoso forsennato battere di colpi» da il tempo e riassume l’intero paesaggio lirico, fino al punto in cui non rimane altro che «vagare eternamente nel giallo dei tronchi», nella «poltiglia avvilita». La «voce degli impulsi», partecipata, detta uno stile a tratti furioso, «imbottito di esplosivo», che sa però rifluire quiescente: «ma quando la mia calma torna penso al / mio tema natale, alla mia coscienza… Al suo scenario ineccepibile». Propone una «realtà leale». Già nel primo libro, La muffa del creato (Lietocolle 2005), ci aveva trasportati in atmosfere cupamente ambigue, e così ha proseguito in Wilderbeast (con Jack Underwood, Edb 2013), da cui provengono le poesie che proponiamo, e poi in Erbaluce (Arca Felice 2015), concedendo al lettore solo immagini da decifrare. Una scrittura inafferrabile che registra la resistenza del mondo alla logica.


Le nuove leve sono ancora in apprendistato, sbilanciarsi è difficile ma noi ci proviamo con Federica Gullotta, giovanissima emiliana di Faenza, autrice di versi incantati e insieme granulosi. Compresa tra le autrici dell’antologia Planetaria / 27 poeti del mondo nati dopo il 1985 (Taut 2020), sta preparando una nuova raccolta, dopo La bestia viziata (Lietocolle 2016) e Gli angeli bianchi escono dai frigoriferi (Edb 2019), da cui provengo gli estratti che seguono. Laureata in Sociologia alla Scuola di Scienze Politiche Ruffilli di Forlì, nel 2017 è stata finalista al Premio Cetona e al Premio Maconi e ha pubblicato sulle riviste «Il Segnale» e «Gradiva». I suoi sono componimenti imprevedibili, immaginifici e consapevoli della tradizione che ci precede.


MARY BARBARA TOLUSSO


Molti se ne sono andati, singoli individui,

famiglie intere, generazioni di tetti a punta

che si spingono. In sogno li dipingo

alla Van Dick, con una luna poco

lunare. Tubature, soppalchi,

pareti non sono più che rammendi.

Lo spazio dà rilievo al soggetto,

una civetteria dell’epoca, una fine

di diaboliche impertinenze.

Le stagioni morte diventano eterne

e durano sempre più a lungo. Vanno

ripetendo che hanno avuto un cuore

con gli occhi fissi al sogno. Ma la vita

mica è una questione di cuore.


*


Si pensa sia frutto del caso

se il sentimento balza

privo di ogni incertezza.

Gli innamorati si amano senza

alcun merito. Nessuno più di loro

conosce l’evidenza e i loro occhi

vanno in coda all’infinito. I campioni, poi, vanno

ciechi su più strati, e contemporaneamente.


*


Una famiglia felice


Ho sognato un letto e due cuscini, di farmi

crescere le mani di traverso per soffocarli

nel sonno. Non che non li conoscessi,

qualche fotografia, forse, qualche parente,

un gatto avrebbe potuto saperne di più.

Esitavano sull’immagine

aperta in confronto all’amore la vita

sembra solida.

A tavola, sul divano, sotto una luna

d’intonaco loro mi amano con dieci miliardi

di cellule. Solo così vivere, né si può chiedere

il riso matto dei Penati, il giocattolo di Caino.


*


Non c’è dissolutezza peggiore del pensare

Wislawa Szymborska


Ogni cosa è sacra se ha un nome

anche per chi, a notte fonda,

si lega in coppia, quadrato o triangolo,

il padre con la figlia, la zia col cognato,

la madre col giardiniere.

Tutto è illustrato e terso in questa

smorfia dell’amore così poco pornografica.

Ma nulla è sacro per chi pensa,

sintesi audaci, ricerche provocanti,

manipolazione viziosa di temi scabrosi.

Una donna col piede fa cerchi nell’aria,

un’altra gratta il banco con l’unghia.

È terrificante osservare

con quanto poco movimento

si renda un intelletto fecondo.

Poi qualcuno si alza, furtivo cerca

il bagno e legge le pareti degli orinatoi.



SILVIA CARATTI


Spiamo attentamente

dentro il microscopio

le fibre del cuore ondulate:


i vetrini sono la piccola esposizione universale

di ogni nostra sofferenza.


Saranno così pure le mie, penso,

non più dritte ma stravolte

se qualcuno talvolta – più prossimo alla divinità –

anche senza un ferro m’apre?


*


Il suo corpo stretto nel velluto della cassa

non si muove eppure muta.

Se solo si riuscisse a farne una questione tecnica

a non stare sempre lì a domandarsi:

sentirò qualcosa anch’io?

Un presagio delle labbra che si seccano

le costole che franano

i denti che s’inclinano.


È un miracolo di cristallizzazione

che ancora non capiamo

e disprezziamo


*


Potessi stare in una circonvoluzione

sondare la pia madre

andare a stanarti.

E sventrarti.


(hai paura, amore, delle dure parole?...)


*


Per V.


Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Iola penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due

Philip Roth, L’animale morente


Io non sono affatto vicina alla verità

come tu sei, perché se così fosse

non mi sarei stupita affatto della tua venuta


quando ogni giorno nuovo

cancella un giorno in cui non c’eri ancora

portando piccoli baci tra i tuoi denti bianchi.


Spezza, ti prego, anche me e insieme lasciami intera,

distribuiscimi con le tue mani

al bordo di questo letto. E ricomponimi.



FRANCESCA MOCCIA


Le labbra di lupo finanziano l’anima


folte sopracciglia il particolare.

Disserta d’affari gli occhi

d’insetto stringono domande.

Il corpo cullato come fosse un rito sacro.

Ritaglia il gallo la lamiera, invoca il sole

spalanca il becco, strilla.


*

Poteva produrre solo ombre ovunque

andasse e verso la fine rimanere lì

vicino alla roulette.

Due grandi scatole di legno e miglia per la mezzanotte

di fondo ciò di cui lui stesso è guardia

e l’acqua

stava combattendo e i suoi fogli ammutoliti li

guardi e voli via.

Controvento si sanciva la fine del mondo 2012.

Gli olandesi dietro il bancone a bere.

*

Annegare in un sogno

come l’incubo di un nuotatore

che si geli l’acqua quando sta nuotando -

Limoso forsennato battere di colpi -


*


Dovremo vagare eternamente nel giallo dei tronchi

nel nero dei tizzoni

e stremati soffieremo fluttuando come il fumo dei

camini in un sonno sordo

imbracciando l’antico sogno

s’allargheranno nel sudario

torbido

come un faro che scema

sabbia in una clessidra

muta.



FEDERICA GULLOTTA


l’avvio è sempre più spettacolare

molto più comodo

di colpo saprai

sul tuo divano

molto più di quanto può sapere

il meraviglioso paesaggio

nella sua urna imperturbabile


che non sei nato,

nessuno prima dopo di te è stato al tuo posto

che non occupi niente

che sei solo un’idea


che sei l’idea malata di un drogato -

che non sei presente in nessun dialogo

hai trovato il taglio estremo:

questo è il materiale

nessuno lo può portare


*


Per miracolo posso negare, non muovermi

mi viene concessa una libertà altissima,

mi posso appiattire, ne approfitto

rovina ma più fischio di morte

impotenza più che morte

è troppo buona con me

è troppo dolce


*


Fate che alla fine di questo prato ci sia altro prato spontaneo o indotto

vi prego, che possa guardare e continuare

fate che ci siano farfalle o spegnetele vi prego

oppure

fate che le farfalle sembrino vive e in ottima forma che lo siano tutte

non voglio vedere nulla a terra vi prego

quello che vedo sembra strano fate che sia bello

vero che dopo c’è una luce più bassa ma più naturale?

ho lasciato il mio amico lontano e al sicuro a lavorare ora ho solo brividi

amici fate che possa vedermi così lontano

Fate che dopo il prato ci sia un mare o una montagna colorata oppure

una città la mia città non so quale fate che nessuno mi veda che nessuno

si chieda perché sono lì fate che siano tutti gentili vi prego tutti gentili e che se ci fosse stato il mio amico sarebbero stati gentili anche con lui

fate che dopo la città non finisca o se è mare e montagna non finiscano

che verso l’orizzonte sia regolare che sia grigio che il sole si veda appena

ma non è quello il bello che mi aspetta

fate che possa stare immobile come una statua fate che il mio corpo come una statua sia

[portato

fate che possa essere questo se lo voglio essere fate che possa sorridere senza sorridere perché so di poterlo fare e perché so quanto prato c’è ancora


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