- Redazione
- 6 giorni fa
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Lucio Piccolo, nato a Palermo nel 1901, figlio del barone Giuseppe Piccolo di Calanovella, nel 1928 si trasferì nella villa di Capo d’Orlando dove ambienterà tutta la propria produzione in versi. Morì nel ‘69. Solo dopo i cinquant’anni pubblicò 9 Liriche (Zuccarello 1954), Canti Barocchi e altre liriche (Mondadori 1956), Gioco a nascondere (Mondadori 1960), Plumelia (Scheiwiller 1967) e L’esequie della luna (Sciascia 1967). Postume sono uscite le raccolte La seta (Scheiwiller 1984) e Il raggio verde (Scheiwiller 1993). Magnificent fu il commento di Ezra Pound davanti alle 9 Liriche. Di ascendenze simboliste - non tanto francesi – riconosceva un debito verso Yeats, con il quale intratteneva una corrispondenza epistolare, ma anche verso Gozzano, Rebora, e soprattutto Campana, per la questione del mistero e della modulazione tonale.
Montale, introducendo in sette pagine partecipate l’edizione mondadoriana, di cui si aspetta da tempo una ristampa, parte da lontano: «raramente la comprensione della poesia può essere fulminea. Difficile è far andare d’accordo il senso letterale e il senso musicale d’una lirica. I due sensi possono presentare diversi gradi d’incompatibilità. Può essere evidente il significato razionale, e segreta, riposta, quasi inafferrabile la musica verbale: o può accadere il contrario… In queste liriche un afflato, un raptus che mi faceva pensare alle migliori pagine di Dino Campana. Il lessico è spesso ricercato, ma la parola ha poco peso, l’armonia è quella di un moderno compositore politonale. Molto confusamente, mi veniva fatto di pensare, non so perché, a quei poeti gallesi – a Dylan Thomas, quando non scriveva da perfetto ubriaco – che sembrano usare una lingua primordiale, di scavo… La sua poesia è appena ai margini di una vita individuata; ed è sospesa in un antefatto, o post factum, che perderebbe ogni valore se diventasse maniera – e carriera – di poeta onirico o surreale… la raffica del ritmo ha piena funzione strutturale, senza che vengano a crearsi, intorno alla parola isolata, zone di silenzio in cui la parola stessa non riesca a prolungarsi».
Il «mobile universo di folate» che irrompe nei versi di Lucio Piccolo contribuisce alla dimensione musicale dei testi e insieme spazza l’edificio barocco da ogni patina retorica. Basterebbe la sola poesia Scirocco per mettere Piccolo tra i grandi della letteratura italiana. L’aria «pastorale» che «scioglie la maggiorana», così virgiliana e insieme di una coralità alla Philip Roth, partendo da una costituzione ariosa e en plein air, si fa anche sottile, si stringe in un «canale riverso» o in un «fanale».
Alberto Pellegatta
Mobile universo di folate
di raggi, d’ore senza colore, di perenni
transiti, di sfarzo
di nubi: un attimo ed ecco mutate
splendon le forme, ondeggiar millenni.
E l’arco della porta bassa e il gradino liso
di troppi inverni, favola sono nell’improvviso
raggiare del sole di marzo.
*
MERIDIANA
Guarda l’acqua inesplicabile:
contrafforte, torre, soglio
di granito, piuma, ramo, ala, pupilla,
tutto spezza, scioglie, immilla;
nell’ansiosa flessione
quello ch’era pietra, massa di bastione,
è gorgo fatuo che passa, trillo d’iride, gorgoglio
e dilegua con la foglia avventurosa;
sogna spazi, e dove giunge lucente e molle
non è che un infinito frangersi di gocce efimere, di bolle.
Guarda l’acqua inesplicabile:
al suo tocco l’Universo è labile.
E quando hai spento la lampada ed ogni
pensiero nell’ombra senza peso affonda,
la senti che scorre leggera e profonda
e canta dietro ai tuoi sogni.
Nell’ora colma, nelle strade meridiane
(ov’è l’ombra, ai mascheroni anneriti
alle gronde scuote l’erbe l’aria marina)
rispondono le fontane,
dalla corte vicina (lasciò la notte ai muri
umidi incrostazioni di sali, costellazioni
che il raggio disperde),
dai giardini pensili ove s’ancora il verde
si librano cristallini archi
s’incontrano nell’aria incantata alle piazze
sui cavalli di spuma gelata,
s’alzano volte di suono radiante
che frange un istante e ricrea
– la tenera piovra, il fiore liquido emerge, elude
il silenzio e un àndito schiude fra il canto e il sopore;
s’aprono zone di solitudini, di trasparenze,
e il bordone poggiato al sedile riposa
e il sogno si leva…
*
SCIROCCO
E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fa sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili – poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi, nastri…
Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.
*
PLUMELIA
L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.
*
Ora è la volta delle stanze, dei luoghi che non esistono, quelli che vengono su ad istanti, di sbiego, e sono sempre dove si è cessato di guardare o non si guarda ancora proiezioni e riflessi in un prolungamento dello spazio vengono fuggevoli a galla nei sogni del sonno o in quelli che scorrono incessanti in noi e solo a momenti sentiamo: la scala non cessa lassù nel pianerottolo sotto il lucernale, s’apre sul muro la porta d’un altro appartamento – oh la scarsa luce dalle imposte accostate, il respiro d’inchiostro disseccato, la polvere dei libri e del tarlo, i copia-lettere oppressivi – è il parente di generazioni più addietro mai esistito se non forse in una fotografia (ch’era d’un altro!) avvizzita. Così una sera, spenti ancora i lumi, il coperchio d’una stufa coi suoi trafori chiamò l’ingresso d’una fuga di stanze su la parete.