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Arte / Ceramiche di Miquel Barceló alla Pedrera




Abbiamo visitato, in Spagna, una delle mostre più interessanti del momento - dopo la poderosa rassegna su Rothko che speriamo abbiate visitato a Parigi. Fino a fine giugno, alla Fondazione Catalunya La Pedrera di Barcellona, si ambienta una rassegna dedicata a Miquel Barceló ceramista, intitolata Todos somos griegos - da un verso di Shelley. Ottanta pezzi e più di quindici dipinti, oltre a taccuini e video.

«La ceramica è la pittura amplificata. Il processo di cottura: pietrificare ciò che era morbido (come la pittura) gli da grande rilevanza. La ceramica è la madre della pittura», con queste parole l’artista congeda il pubblico all’uscita della mostra.

Pittore tra i più celebri della scena internazionale, autore della Sala dei Diritti Umani nella sede delle Nazioni Unite a Ginevra e della splendida cappella del Santissimo nella Cattedrale di Maiorca, sotto il baldacchino di Gaudì, Barceló è un artista il cui lavoro non esisterebbe senza gli elementi naturali delle sua isola, tanto viscerale è il rapporto con la materia, con il colore, con la luce. Nella Cattedrale di Maiorca, l’artista inventò un sistema di placche ricombinabili come se si trattasse di un enorme mosaico (27 metri d’altezza) ispirato al tema della moltiplicazione dei pani e dei pesci e alla trasformazione dell’acqua in vino. Di questo periodo ci sono in mostra due pezzi: Pescatrice e pesci e Due cavallette.

Barceló ha iniziato a dipingere negli anni Settanta e ha subito avuto grande fortuna critica, con mostre, tra gli altri, nei musei di Londra, Parigi (Centre Pompidou nel 1996, Museo del Louvre nel 2004, Biblioteca Nazionale di Francia nel 2016 e Museo Picasso nel 2016), al Reina Sofia di Madrid (1999), a Roma, a Vienna, in Giappone (Museo Nazionale d’Arte di Osaka nel 2021) e negli Stati Uniti. Ha ottenuto diversi riconoscimenti internazionali come la retrospettiva alla Documenta di Kassel del 1982, la rappresentanza spagnola alla Biennale di Venezia del 2009 e il premio Principe d’Asturie del 2004.

I pensieri dell’artista, piumati, diventano creature degli abissi: meduse, polipi, coralli. Persino le ossa, glassate nei bianchi, fanno venire voglia di essere toccate, come gli oggetti commestibili delle favole. La violenza della visione, attutita da una composizione sapiente e pacificata, spesso marina, informa una scultura poco tradizionale – quando mescola cenere vulcanica, frutta e pigmenti fatti in casa -, a volte totemica ma femminile, sarcastica ma precisa, di grande abilità tecnica ma di altrettanta disinvoltura – da qui la fiducia nel gesto, disordinato forse negli amori, ma non inamidato in gusti accademici. I colori, essenziali e partecipati, sono già forme.

Dopo aver scoperto la ceramica nei ripetuti soggiorni africani, l’artista non ne ha più potuto fare a meno: lo dimostrano le prime sculture ispirate all’arte di Mali, le ceramiche marine, i vasi con bestiari estroflessi, le ceramiche che vivificano i morti, che diventano dentature. I primi lavori testimoniano l’uso di una tecnica ancestrale maliana, poiché mischiano l’argilla a escrementi animali. Opere fragili ma cruciali, come Sahel vanitas III (1992) o Masque (1995) - presenti in mostra.

La ceramica “è il materiale che raccoglie meglio i difetti e le imperfezioni”, che sono gli interstizi, botanici e zoologici, attraverso cui l’uomo progredisce. Il termine materico, per questo pittore, è persino riduttivo, visto l’uso che fa persino delle pieghe della tela, per ottenere lo spessore necessario e uscire dalle due dimensioni del dipinto. Tra verdi marini e rosa allusivi, trovano spazio i vivaci taccuini affollati di pesci e petali, o le ceramiche più recenti, ironiche ma anche profondamente liriche, orgogliose eredi della grande ceramica greca. Conclude la mostra una stanza di totem ricavati da laterizi forati, deformati dall’artista fino all’espressione finale.



L’esempio di Barceló dovrebbe far riflettere sulla capacità del paese di difendere i propri artisti. Mentre nel resto d’Europa la rete di istituzioni, galleristi, critici e collezionisti contribuisce all’arte nazionale, in Italia dobbiamo approfittare di piccoli spazi come questo per nominare qualche scultore contemporaneo che, nonostante la bravura, rimane sconosciuto per l’incapacità tutta italiana di riconoscere gli artisti di valore - complice la gestione clientelare di spazi e fondi pubblici. Da svariati decenni i veri artisti, come i veri scrittori, faticano a sopravvivere nell’indifferenza delle istituzioni e per l’assenza di una critica dignitosa, quando non muoiono emarginati e poverissimi – pensiamo a Costantino Guenzi o a Sandro Penna.

Ecco allora qualche nome recente: Nada Pivetta, Narciso Bresciani, Matteo Naggi, Mirco Marchelli, Betta Casella e Laura Branca. Per non parlare di maestri passati in sordina come Leoncillo, Agenore Fabbri, Umberto Milani, Giancarlo Sangregorio, Emilio Scanavino, Vittorio Tavernari e il mai abbastanza citato Nanni Valentini.

Tra i più giovani, solo qualche esempio da incoraggiare: Matteo Bagolin, nato nel 1985 a San Donà di Piave, paese di Andrea Zanzotto. Le sue opere, sfere di grande effetto cromatico o busti in scioglimento, fiorite o infiammabili, hanno un’evidente aspirazione organica. Attenzione ai dettagli naturali, alle combustioni: la ceramica impara a imitare il legno, il cespuglio; la materia artistica calcifica come un guscio. I lavori di Matteo Bagolin entrano più volte nel forno e si concentrano sulle superfici, stratificate negli smalti creati ad hoc dall’artista partendo da feldspati, quarzo e ossidi.

Michela Benedan è nata invece nel 1988 a Cernusco sul Naviglio, in provincia di Milano, ed è stata finalista al Premio Faenza. È diplomata in pittura all’Accademia di Brera e in scultura alla Burg Giebichenstein Kunsthochschule di Halle. Ha al suo attivo un grande lavoro all’estero e diverse mostre, tra le quali ricordiamo quella al Museum Schloss Fürstenberg (2018) e Parcours (Burg Galerie im Volkspark, Halle 2018). L’artista lavora anche con porcellana e carta. Centrale è l’aspetto formale, la sfida di costruire strutture attraverso materiale instabile, addirittura liquido.

Alberto Scodro, nato nel 1984, vive e lavora a Vicenza. Della ceramica l’artista utilizza gli scarti di lavorazione. Ha esposto in diverse personali, tra cui Paths forced into the palm of your hand (Caves, Melbourne 2019), Just For a Drop (L’Escaut, Bruxelles 2018) e Crossing Liegi (Ravi, Liegi 2016). Armato di quarzo, vetro, grafite, resina e metalli, oltre a ossidi e pigmenti, concentra anche in pochi centimetri un’impressionante stratificazione di materiali di risulta. Un lavoro complesso ma assai compatto e univoco: grazie alla compressione e sfidando la gravità l’opera evoca volti, infiorescenze, elementi spugnosi e naturali. Una grande serietà strutturale evidente nella piacevolezza dei ritmi.

Nell’opera di Mariangela Zabatino, infine, la biologia si mischia indissolubilmente alla meteorologia del sentimento. I bassorilievi e le ceramiche cotte a bucchero permettono alla materia, scaldata dalle correnti del pensiero, di raggiungere colori rivelatori. Il nero della combustione è preludio di qualcosa che ancora non conosciamo: il fuoco trasforma l’argilla in ceramica e il segno diventa semina. È la materia stessa che racconta, come nell’«archeologia senza memoria» di Nanni Valentini: «un rimbalzo continuo fra la pittura e la ceramica… L’unica comunicazione che posso pensare è l’atto incestuoso della mano che accarezza la zolla e lo sguardo che ne percorre il solco» (Materia come realtà, Musei di Macerata 1979).

Alberto Pellegatta


Opera di Michela Benedan

Opera di Mariangela Zabatino

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