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Laboratorio inediti / Lorenzo Gafforini

  • Immagine del redattore: Redazione
    Redazione
  • 4 giorni fa
  • Tempo di lettura: 2 min


Lorenzo Gafforini è nato nel 1996 a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, collabora come critico letterario con La Repubblica, Limina Rivista, Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine e Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali Se tutti i danesi fossero ebrei di Evgenij Evtušenko (Lamantica) e Il boia di Brescia di Hugo Ball (Fara) ma anche Terra - Emblemi vegetali di Luc Dietrich (Grenelle). Ha pubblicato la raccolta poetica Il dono non ricambiato (Fara), il racconto lungo Millihelen (Gattomerlino) e il romanzo Queste eterne domeniche (Robin).

I testi che proponiamo provengono da una raccolta da poco edita per Transeuropa, La meccanica del suono, che racconta di un’opera assurda («ottocento pagine di niente, nessuna trama, nessuna storia»), composta da un’unica grande frase. Una ricerca per capire perché l’autore abbia voluto in tutte quelle pagine parlare solo di un suono.



La prima volta che ho visto L è stato in un libro.

La vita è fatta di periodi disperati dove la nostra sensibilità si affina fino ad atrofizzarsi. La depressione, dicono, permette di vivere in maniera più intensa.

Come unico ambasciatore della mia pena, cercavo di evadere con una goffaggine così patetica da commuovere. Scappavo di luogo in luogo, rifugiandomi in studi insensati e prendendo dalla biblioteca volumi mai richiesti in prestito.

Leggevo ovunque capitasse, specialmente su treni e banchine.

In due settimane di ferie ero passato per un centinaio di stazioni, visitando però solo una manciata di città. Cercai e ottenni asilo passando dal mondo grigio del lavoro allo scorrere frenetico dei paesaggi.

Ricordo lo stupore nel costeggiare il Mar Ligure comparendo e sparendo nelle gallerie. Poi anche questo, come tutto, mi venne a noia e decisi di emigrare a oriente.


*


Era settembre quando volevo morire a Venezia.

Giorni di cielo terso e di mare mosso, di sere accennate sul canale della Giudecca a sospendere il giudizio. Al tramonto l’acqua sembrava porfido.

Era un esercizio essere assenti a se stessi, un modo per abituarsi a sparire; ma più della morte può la noia.


*


La sua mente è una lanterna cinese a cui però è troppo affezionato tanto per avidità quanto per paura: quando minaccia di andarsene, la coscienza diventa un bimbo pronto a scagliarle pietre.

Lo schianto per lui è un sobbalzo, la certezza di trovarsi a terra, ammaccato, inutile, ma ancora vivo.


 
 
 

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