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Poesia spagnola / Gabriel Ferrater


Maestro della poesia catalana contemporanea, animatore culturale della nuova Spagna democratica, Gabriel Ferrater (Reus 1922 - Sant Cugat del Vallès 1972) è stato una figura cruciale non solo per la poesia spagnola. Ha fondato la casa editrice d’avanguardia Edicions 62 ed è stato docente di linguistica e letteratura, praticando anche la critica d’arte. Le poesie che proponiamo provengono da diversi volumi dell’autore, raccolti nell’edizione definitiva Les dones i els dies (Le donne e i giorni), uscita nel ‘68 ma ristampata nel 2010 e nel 2017. Le traduzioni dal catalano sono di Alberto Pellegatta. Il primo testo è l’incipit di un poemetto, che è anche una storia d’amore.





IN MEMORIAM



Quando è scoppiata la guerra, avevo

quattordici anni e due mesi. Per il momento

non mi faceva nessun effetto. La testa andava

tutta piena di un’altra cosa, che ancora oggi

mi sembra più importante. Stavo scoprendo

I fiori del male, e con questo voglio dire

la poesia, certo, ma

anche un’altra cosa, che non so come dire

che è la cosa che conta. La rivolta? No.

Questo è ciò che dicevo allora. Mentire

in un bosco di noccioli, al centro di una rosa

dalle foglie ammuffite e verdissime, come

pelli di bruco sconciato, lì, seduto

a cavallo del mondo, mi ispessivo

di una felice rivolta, mentre il paese

scattava di rivolta in contro-

rivolta, non so se felice, ma

più rivoltante della mia. La vita

morale? Si avvicinava, ma mi rendeva ambiguo.

Può essere che la parola migliore fosse egoismo,

ed è meglio ricordare che a quattordici anni

dobbiamo cambiare la prima persona:

già ci stringe il plurale, e l’esercizio

di uno stile singolare, la nausea

dello scalatore di se stesso,

ci sembrava un buon programma per il futuro.

Dopo arrivano gli anni, e felicemente

pure se ne vanno, e se ne va stanca

la mano che accarezza la fronte testarda

d’agnello inconfessato, e vede che adottiamo

il plurale, non so se di modestia,

che rinuncia al singolare, se ne va,

ma ringrazialo e premialo. È abbastanza.


Finite le vacanze, sì,

vedo che al mio mondo qualcuno aveva

fatto una faccia nuova. Sangue e fuoco.

Non mi sembravano orribili, erano

il sangue e il fuoco di sempre. La mia scuola

di preti l’hanno bruciata, e il Guiu,

che era il sergente che ci faceva fare ginnastica

paramilitare, e che odiavamo tutti

(torno al plurale, perché la vita

regredisce sempre), il Guiu era stato

assassinato a colpi di pistola, e ci hanno raccontato

che non è stato facile, perché indossava

una maglia di metallo sotto il costume

da ragazza di campagna, e nel cestino,

sotto le uova, nascondeva tre granate.

Lo hanno ucciso nell’angolo della piazzetta

d’Ercole, a fianco della scuola,

che è dove uscivamo in due classi,

e non ricordo che il luogo ci sia sembrato

segnato in alcun modo, né avremmo voluto

trovare nel tronco di un platano una pallottola

né nessun altro segnale. Quanto al sangue,

non serve dire che forse il giorno stesso

il vento lo ha indurito. Ne ha fatto polvere

forse un po’ più pesante, niente.

Le pareti prese a calci della scuola,

non so se le ricordo o se le immagino.

Non ci entriamo. Facevamo la muta, e non

provavamo alcun interesse per gli stracci

della vecchia pelle. Annusavamo la paura

che era il profumo di quella sera,

ma ci sembrava buona. Era una paura

dei grandi. Venivamo fuori dalla paura dei bambini

e avevamo la fortuna che il mondo ci si facesse

quasi del tutto semplice. Al massimo la paura

ce l’hanno loro, ci sentivamo più liberi.

Era il solito processo, e capivamo

oscuramente che con noi la ruota

accelerava molto. Eravamo felici.


Eravamo tutti insieme ed eravamo sempre tanti.

Ci hanno fatto sindacare, e il sindacato

ci ha dato vivi e diversi piaceri.

In un appartamento sotto sequestro, che per noi

era un appartamento occupato dal nemico

(non il nemico ufficiale, il nostro),

dietro fumi di poker, ci portavano

libri e mobili, facevamo affari

di pistole e bauli, salutavamo

alla romana (non per niente, i nostri

erano più simpatici, ma gli altri

avevano più prestigio da cattivi),

volevamo portare le ragazze negli angolini

e siccome non uscivamo spesso, inquieti,

salivamo e scendevamo dal balcone.

Abbiamo scoperto le puttane e il rubare.


[...]


*


IN MEMORIAM



Quan va esclatar la guerra, jo tenia

catorze anys i dos mesos. De moment

no em va fer gaire efecte. El cap m’anava

tot ple d’una altra cosa, que ara encara

jutjo més important. Vaig descobrir

Les Fleurs du Mal, i això volia dir

la poesia, certament, però

hi ha una altra cosa, que no sé com dir-ne

i és la que compta. La revolta? No.

Així en deia aleshores. Ajagut

dins d’un avellaner, al cor d’una rosa

de fulles moixes i molt verdes, com

pells d’eruga escorxada, allí, ajaçat

a l’entrecuix del món, m’espesseïa

de revolta feliç, mentre el país

espetegava de revolta i contra-

revolta, no sé si feliç, però

més revoltat que no pas jo. La vida

moral? S’hi acosta, però és massa ambigu.

Potser el terme millor és l’egoisme,

i és millor recordar que als catorze anys

hem de mudar de primera persona:

ja ens estreny el plural, i l’exercici

de l’estilita singular, la nàusea

de l’enfilat a dalt de si mateix,

ens sembla un bon programa pel futur.

Després vénen els anys, i feliçment

també s’allunyen, i se’ns va cansant

la mà que acaricia el front tossut

de l’anyell íntim, i ve que adoptem

aquest plural, no sé si de modèstia,

que renuncia al singular, se’n deixa,

però agraint-lo i premiant-lo. Prou.


Acabades les vacances, sí,

vaig veure que al meu món algú li havia

fet una cara nova. Sang i foc.

No em semblaven horribles, però eren

la sang i el foc de sempre. El meu col·legi

de capellans el van cremar, i el Guiu,

que era el sergent que ens feia fer gimnàstica

premilitar, i l’odiàvem tots

(torno al plural primer, perquè la vida

regredeix sempre), el Guiu havia estat

assassinat a trets, i ens van contar

que havia costat molt, perquè portava

cota de malla sota la disfressa

de velleta pagesa, i al cistell,

sota els ous, hi amagava tres granades.

El van matar al racó de la placeta

d’Hèrcules, al costat de l’Institut,

que és on sortíem entre dues classes,

i no recordo que el lloc ens semblés

marcat de cap manera, ni volguéssim

trobar en un tronc d’un plàtan una bala

ni cap altre senyal. Quant a la sang,

no cal dir que, potser el dia mateix,

el vent se la va endur: va fer la pols

potser una mica més pesada, res.

Les parets socarrades del col·legi,

no sé si les recordo o si m’ho penso.

No hi vam entrar. Féiem la muda, i no

trobàvem interès en els parracs

de vella pell. Oloràvem la por

que era l’aroma d’aquella tardor,

però ens semblava bona. Era una por

dels grans. Sortíem de la por infantil

i teníem la sort que el món se’ns feia

gairebé del tot fàcil. Com més por

tenien ells, més lliures ens sentíem.

Era el procés de sempre, i compreníem

obscurament que amb nosaltres la roda

s’accelerava molt. Érem feliços.


Ho érem tots junts i ho érem sempre i molt.

Ens van fer sindicar, i el sindicat

ens va donar plaers vius i diversos.

En un pis requisat, que per nosaltres

era un pis ocupat a l’enemic

(no l’enemic oficial, el nostre),

darrera fums de pòquer, ens endúiem

llibres i mobles, fèiem la barata

de pistoles i bales, saludàvem

a la romana (no per res, els nostres

ens eren més simpàtics, però els altres

tenien més prestigi de malvats),

volíem dur les noies als racons

i com que no en sortíem, neguitosos,

pujàvem i baixàvem pel balcó.

Vam descobrir les putes i el robar.


[...]


*


AL CONTRARIO



Lo dirò al contrario. Dirò la pioggia

frenetica d’agosto, i piedi di un bambino

che avanzano come lumache sul filo del trampolino,

il salto appuntito del levriero che fa il profumo

dei lillà d’aprile, la pazienza

del ragno che scrive la sua fame,

il corpo con quattro gambe e due teste

sul terreno grigio del crepuscolo, il pesce

scorrevole come l’archetto di un violino,

il blu e l’oro delle bambine in bici,

la sete drammatica del cane, il taglio

dei fari del camion nella mattinata

imputridita del mercato, le braccia magre.

Dirò ciò che mi sfugge. Non dirò niente di me.


*


A L’INREVÉS



Ho diré a l’inrevés. Diré la pluja

frenètica d’agost, els peus d’un noi

caragolats al fil del trampolí,

l’agut salt de llebrer que fa l’aroma

dels lilàs a l’abril, la paciència

de l’aranya que escriu la seva fam,

el cos amb quatre cames i dos caps

en un solar gris de crepuscle, el peix

llisquent com un arquet de violí,

el blau i l’or de les nenes en bici,

la set dramàtica del gos, el tall

dels fars de camió en la matinada

pútrida del mercat, els braços fins.

Diré el que em fuig. No diré res de mi.


*


POSSEDUTO



Sono lontano dall’amarti. Quando i vermi

faranno con il mio corpo una fredda cena

troveranno un retrogusto di te. E sei tu

che indecentemente ti sei amata per me

fino alla rivolta: saziata di te stessa,

ora ti ecciti, mi vai dietro

a un altro corpo, e mi rifiuti la pace.

Non sono altro che la mano con cui tu tocchi.


*


POSSEÏT



Sóc més lluny que estimar-te. Quan els cucs

faran un sopar fred amb el meu cos

trobaran un regust de tu. I ets tu

que indecentment t’has estimat per mi

fins al revolt: saciada de tu,

ara t’excites, te me’n vas darrera

d’un altre cos, i em refuses la pau.

No sóc sinó la mà amb què tu palpeges.


*


OZIO



Lei dorme. L’ora in cui gli uomini

si sono già svegliati, e poca luce

entra già a ferirli.

Con poco ne abbiamo abbastanza. Solo

il sentimento di due cose:

la terra gira, e le donne dormono.

Riconciliati, andiamo avanti

fino alla fine del mondo. Non dobbiamo

fare nulla per aiutarlo.


*


OCI



Ella dorm. L’hora que els homes

ja s’han despertat, i poca llum

entra encara a ferir-los.

Amb ben poc en tenim prou. Només

el sentiment de dues coses:

la terra gira, i les dones dormen.

Conciliats, fem via

cap a la fi del món. No ens cal

fer res per ajudar-lo.

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