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Rea / Un racconto di Cecilia Lavatore


Innanzitutto, ricordo il profumo di bergamotto misto a petali di rosa canina, pestati con il sandalo e con della pietra d’ambra. Così la ricordo la donna che salì ventisette anni fa sul notturno per il Lido, in un impasto di borotalco e fragranza di scena, rotondo e pungente.

Era l’estate del 1993, in quella stagione mi erano toccati molti turni di notte. Avevo quasi cinquant’anni, eppure continuavano ad assegnarmi degli orari che il mio fisico faceva fatica a sostenere. Dio, erano tremendi i miei capi.

Il mio nome è Rosy, sono una persona affezionata alle storie, alle mie e a quelle degli altri.

In quegli anni lavoravo come receptionist in uno dei più antichi alberghi del centro di Roma: l’Hotel Luna, in piazza Campo de’ Fiori.

Ora sono in pensione, mi dedico alla mia famiglia e a scrivere. Avrei potuto fare l’insegnante, sono sempre stata brava negli studi, soprattutto letterari, mi ero quasi laureata quando ero ancora giù in Sicilia. Poi, però, alcune sfortunate circostanze economiche non me lo hanno permesso, avevo bisogno di guadagnare e di sposarmi, così ho dovuto scegliere.

Non ho rimpianti, tuttavia, devo dire che del mio mestiere serbo sempre un buon ricordo, nonostante la fatica dei lunghi turni, qualche amarezza ogni tanto ed il tempo che ha rubato ai miei affetti e alle mie letture.

È stato un bel lavoro: quei mondi lontani e frammentati che andavano e venivano, mi regalavano fette di esistenze da assaporare, nascosta nella neutralità della mia divisa grigia e bianca, sobria e ben stirata. Mi appassionavo alle loro espressioni la mattina ai tavoli della colazione, o mentre attendevano l’ascensore uno a fianco all’altro, cercavo di indovinare le miscele delle loro relazioni, mi soffermavo sulle intonazioni dei loro discorsi, sui loro silenzi, sulle foto dei loro documenti. Eh sì, quel mestiere mi ha dato la possibilità di nutrire di adamantina realtà la mia immaginazione e di inventare personaggi di cui ho, giorno dopo giorno, riempito i miei scritti.

Eppure, il mio racconto preferito, questo che troverete in queste righe, me lo sono sempre tenuto per me, finora. Sarà stato forse per la sua peculiarità, che me lo rese, fin da subito, tanto caro da volerlo proteggere.

Sono passati anni e anni, non si può pretendere che io riesca a recuperare esattamente il decorso degli eventi ed i dettagli di ciò che avvenne, è una trama difficile da tessere. Diciamo che ho conservato quanto basta, dentro quel vaso di fragile argilla che è ormai la mia memoria.

Mi ha aiutato, senza dubbio, l’intima abitudine di dedicare qualche istante almeno, ogni giorno, a ripercorrere certe piccole braci che ho a cuore: i pezzi di una frase, i bordi dei sedili, le macchie sui tessuti, la sua ombra di spalle… abitudine che mi ha portato, spesso, a rincontrare Rea, Sebastiano e Ronnie nei miei sogni, tinti ogni volta di colori diversi.

Ma andiamo per ordine: quella notte, la notte del 19 luglio 1993, ero riuscita a staccare per le cinque meno un quarto, grazie ad un collega arrivato prima del dovuto, avevo salutato il team sorseggiando un caffè fatto in fretta al bar e mandato giù nella speranza che mi scaldasse e mi desse forza per il consueto lungo viaggio. Avevo percorso l’usuale itinerario, lungo via dei Giubbonari, tra i vicoli di una Roma ancora addormentata e incantevole, sottratta, solo in quelle poche amene ore, alla calca dei turisti. Raggiunto Corso Vittorio Emanuele, mi ero messa pazientemente alla fermata dell’autobus davanti alla Chiesa di S. Andrea della Valle, aspettando che l’Atac mi riportasse, come ogni giorno, sul lungomare.

Mio marito ed io siamo entrambi originari di Palermo, precisamente di Mondello. Appena sposati ci trasferimmo qui, perché Toni, che era un militare, era stato destinato ad una caserma romana. La vita della metropoli non faceva per noi e così trovammo quella sorta di compromesso sul litorale laziale, per odorare il mare e non scordarne la forma.

La casa era bella ed era nostra, mi costò sempre fatica, però, organizzarmi: la mia intera vita lavorativa si svolse da pendolare. Alle volte attendevo anche un’ora prima che arrivasse il mio autobus, altre volte, come quella notte, dopo pochi minuti, potei mettermi comoda.

Nella vettura, quando salii, c’ero solo io, oltre all’autista, il che non mi sorprese, era uno dei motivi per i quali detestavo lavorare in quegli orari, trovavo il viaggio di ritorno molto pericoloso.

Fu solo alla fermata seguente che entrò lei: Rea, così, in seguito, mi disse di chiamarsi. Dapprima, la scrutai con la curiosità pigra ed indulgente con la quale ero solita guardare gli sconosciuti.

Aveva i capelli lunghi, scuri e voluminosi, cotonati ad incorniciare il viso accorato e vagamente superbo.

La si poteva immaginare, illuminata da una fragile ed intermittente luce giallastra, a ripassare frettolosamente le battute per l’ultima replica, riflessa nello specchio opaco di un camerino pieno di cipria e di batuffoli imbevuti di latte detergente, con la giacca di scena appesa alla maniglia della porta socchiusa e i fiori appassiti sulla sedia, accanto alla scritta: “Riservato agli artisti”.

Era giovane ed aveva un’apparenza eccentrica, con la pelle bianca, quasi diafana direi, e soffice, avvolta nel velluto di un corpetto bordeaux mal tenuto da lacci disordinatamente allentati. La circondava una grande gonna nera a falde di tulle che le ricadeva abbondantemente intorno lasciando intravedere lo stato avanzato della sua gravidanza.

Quando salì alla fermata davanti al Teatro Argentina, emerse dal buio della notte romana come un animale selvatico. Si lasciò alle spalle quinte di monumenti, vetrine e vegetazione. All’inizio, in realtà, vidi solo la sua mano che, esile e dipinta di un cremisi accesso sulle unghie finissime, bloccò la porta arrugginita della vettura già quasi in partenza. Posò le cinque dita ben salde alla maniglia cigolante e si tirò su mormorando all’autista: “Devo salire, non ti azzardare a lasciarmi per strada”.

Rea si stagliò al centro della pedana in una postura tanto solenne quanto tenera, ed esitò un istante lì, fissandomi inquieta, come se, nonostante il fastidio che la mia presenza le provocava, io potessi, in qualche modo, esserle utile. Il suo profumo forte pervase lo spazio che condividevamo. Appariva affaticata e nervosa, un velo di sudore le imperlava la fronte tanto amplia da lasciar spazio a molti pensieri, tutti aggrovigliati dentro i suoi begli occhi sgranati.

Aveva lo stesso sguardo con cui, con ogni probabilità, era solita entrare in scena: tenacemente tragico. Il trucco generoso era ormai, a tarda notte, calato ai lati. L’ombra fumosa di cajal regalava intensità ai suoi tratti marcati, la bocca era reinventata dal rossetto corposo ed il volto pronunciava gli zigomi e la mandibola come una doppia in dialetto siciliano, era esagerata. Esagerata e bella, di una bellezza mediterranea e furiosamente sanguigna.

Mentre io, invece, non ero altrettanto avvenente, specialmente a fine turno. Avevo le gambe gonfie, mi facevano male, ed anche i piedi, stretti nelle scarpette nere. L’aria condizionata dell’Hotel, in contrasto con il caldo dell’asfalto, mi aveva provocato un fastidioso dolore alle tempie. Per distrarmi iniziai a sfogliare una rivista di moda che avevo sottratto dalla hall dell’albergo, una delle poche libertà illecite che mi prendevo nei confronti del Luna, un vezzo più che guadagnato.

Cercavo di rilassarmi e di distendere lo stress accumulato nell’intensa stagione estiva. Di tanto in tanto, però tornavo a guardare Rea che, da quando si era aggiunta al mio tragitto, lo aveva reso a dir poco singolare.

Nonostante forzassi la mia discrezione, lei era seduta proprio di fronte a me, alcuni sedili vuoti ci separavano ma la sua agitazione li travalicava, contagiandomi. Mi guardava anche lei, esitante, sembrava volesse chiedermi qualcosa o, semplicemente, tenermi pronta per quello che stava per accadere. Quella strana donna sembrava caduta da un palcoscenico: una Giulietta appena calata dal balcone, una Lady Macbeth in fuga dal sipario, uno di quegli inesorabili sipari di cui sono disseminate tutte le vite e specie le più disgraziate.

Roma, fuori dal vetro, era più buia che mai, si era tinta di quel punto di nero che inghiotte il cielo appena prima che albeggi. Sembrava dovesse nascondersi, anche lei, dalle malelingue, dalla sorte e dalle ingiurie.

Cercai di trovare un po’ di serenità ma, arrivati al confine sud della città, quella donna iniziò ad apparire troppo irrequieta per non destare allarme: non riusciva a stare ferma e ondeggiava sul sedile in preda al suo dolore. Notando quella sofferenza, non trattenni la mia apprensione, e andai a chiederle se andasse tutto bene. Se fossi stata al suo posto, pensai, avrei voluto qualcuno vicino.

“Mi scusi”, esordii, “ha bisogno d’aiuto? Vuole un po’ d’acqua?”.

Rea sembrò non sentirmi, troppo presa dalle sue fitte, le ruote che sbattevano sulla carreggiata dissestata disperdevano inclementi il suono della mia voce. Le parlai più forte, allora: “Signora, vedo che si sente male. Lei è in cinta, vero?”

Questa volta Rea parve sentirmi, mi guardò d’improvviso, voltandosi come una bestia ferita, aveva il mento proteso tutto in avanti, era innaturale ed implorante. Mi afferrò, allora, il polso, mi strinse tanto, così tanto da lasciarmi atterrita. Deglutii, mentre divampava in me la paura che qualcosa, in lei, effettivamente, non fosse affatto normale.

Ancora adesso, a distanza di così tanto tempo, mi capita di svegliarmi di soprassalto, con la sensazione agghiacciante di avere le sue dita sulla pelle.

“Mi chiamo Rea” disse, bruciandomi con un’espressione ferma e disperatamente lontana. “Sono morta cinquant’anni fa, durante i bombardamenti su Roma. Non ho potuto far nascere mio figlio, l’amore della mia vita. Mi sono esplose le mura attorno a pochi giorni dal parto. Avevo questi abiti di scena addosso, io ero un’attrice. Volevo solo crescere mio figlio e tornare a teatro.”

Mentre mi ritraevo indietro, le tolsi bruscamente la mano dal mio braccio, e farfugliai: “Ma cosa dice? Lei è matta!”. Il panico mi afferrò da dentro, come una manina, così vorace da inghiottire i suoni e il respiro, salì dall’esofago alla gola, e mi annodò il palato.

Però Rea continuò: “Che motivo avrei di mentirle? Mi aiuti, la prego, da sola non posso farcela. Il giorno delle bombe gridai per ore sotto quelle macerie ma non venne nessuno ad aiutarmi, ho provato altre volte a tornare ma non ci sono ancora riuscita a far nascere il mio bambino. Questa è la mia ultima possibilità”.

Rea mi ruggì addosso il rimprovero per la sorte toccatale, la sua rabbia fece eco sopra il fracasso del motore e si scavò un suo spazio negli incavi della mia coscienza. Tutto di lei sapeva di vita, eppure, quella donna si diceva già morta.

Continuavo a guardarla con tremenda impressione, ma lei non si arrese e mentre quelle gocce di sudore continuavano a bagnarle i capelli ed il collo, mi passò un foglio arrotolato. Le lettere in corsivo stentato e tremolante erano scritte con dell’inchiostro di china sbavato qua e là, dove il senso delle parole le aveva fatto più male. La filigrana era consumata, avevo paura di disintegrarla al solo sfiorarla. Nel testo si leggeva: “Voglio che si chiami Sebastiano, come l’uomo che ho amato. Siamo stati sfortunati. Questa città prima ci ha accolti e poi ci ha separati troppo presto, mi avessero almeno lasciato il tempo di abbracciare il mio bambino.”

Non c’era alcun dubbio: ormai che quel viaggio sul notturno per Ostia era diventato decisamente diverso da qualsiasi altro viaggio mi fosse capitato prima.

Avevamo intanto superato da un po’ l’ultimo tratto cittadino, il quartiere Eur, per addentrarci nella strada a scorrimento veloce che ci avrebbe portato ad Ostia.

Rea respirava rumorosamente, cercava di controllare il dolore ma ogni angolo del suo volto erano interessato dallo straziante travaglio imminente.

Le presi la mano e chinandomi per starle vicino, mi sedetti di fronte a lei, mentre i suoi occhi appesantiti si chiudevano leggermente. Le promisi allora che avrei fatto ciò che mi chiedeva.

Le diedi da bere e le bagnai i polsi e la fronte, stavo per allontanarmi per chiedere all’autista di portarci al più vicino ospedale, ma accadde ciò che temevo: Rea iniziò a gridare, le si erano rotte le acque.

Al sentire le grida, Ronnie, si girò di botto verso di noi. La distrazione lo costrinse ad inchiodare. Il mezzo, allora, colpì con violenza il guard rail e il motore si spense con un colpo sordo.

Fummo sbalzate di poco, per fortuna, andavamo molto piano. Le mani cercarono appoggi, tutto il sonno che avevo sparì sostituito dalla pura adrenalina, i brividi mi percossero la schiena. Ricordo bene le lancette del mio orologio fermarsi d’un tratto: si cristallizzarono dopo che il quadrante batté sulla plastica della parete dell’autobus, erano le 5.33. Ronnie si alzò e ci corse incontro esclamando: “Scusate! State bene?! Ho perso il controllo, scusate!”. Aveva l’uniforme sgualcita ed il volto teso, un leggero tremore alle mani lo faceva sembrare ancora più piccolo di quanto non fosse. Doveva essere straniero a giudicare dall’accento ed assunto da poco vista la giovane età. “Che succede? Cos’ha la signora?” mi chiese, arricciando le sopracciglia folte e serrando le labbra seccate dallo spavento.

Rea non lo guardò neanche, aveva gli occhi chiusi sotto ai quali lacrime di dolore le portavano via altro trucco dalle guance arrossate. Mi supplicò di nuovo: “Mi deve aiutare, è la mia unica possibilità, non mi lasceranno tornare”.

“La signora sta partorendo, ecco cos’ha”. Dichiarai io risoluta. “Ci dia una mano”.

Avevo già avuto mia figlia all’epoca. La mia bambina era nata con il cesareo però. Non avevo la minima idea di come far nascere un neonato. Se fossi rimasta in Sicilia, probabilmente avrei partecipato di più ai parti delle cugine e cognate, ma io ero emigrata a Roma già da vent’anni all’epoca e avevo avuto ben poco a che fare con le gestazioni delle mie familiari. Ne sapevo tanto poco quanto di ricette tipiche e di sagre di paese.

Ronnie era poco più che un ragazzo e non aveva mai visto partorire una donna in vita sua, era tanto disperato per Rea quanto per il suo mezzo che provò più volte a far funzionare nel tentativo di raggiungere un pronto soccorso. Ma l’autobus era rotto e non sarebbe ripartito ancora per molto.

Eravamo inesperti, spaventati e privi di qualsiasi mezzo per chiamare aiuto, non c’erano cellulari, come li abbiamo oggi. Il telefono della vettura non aveva mai funzionato stando a quanto ne sapeva Ronnie e non riuscivamo a vedere alcuna cabina per chiamate d’emergenza lungo la via.

Così ci capitò quel fatto a noi tre, anzi noi quattro con Sebastiano sul punto di nascere, di dover risolvere una questione tanto naturale quanto complessa com’è un parto, bloccati in mezzo ad una strada, durante un’alba come un’altra per molti, ma non per noi. Qualche macchina ci correva accanto, noncurante: nessuno ebbe cuore di fermarsi. Ci avevano lasciato soli.

Ciò che accadde dopo, poi, lo ricordo in piccoli flash. Frasi come: “Spingi” “Non arrenderti Rea” “Lo vedo, lo vedo, devi spingere ancora”. Poi ricordo il sangue, sangue ovunque. Quella piccola testa che apparve e mi fece gridare “Lo vedo, è lì Rea, ci sei quasi”. Le spalle minuscole, come una magia.

Ricordo Ronnie che ci passa una camicia pulita dal cruscotto della vettura, la sua uniforme di ricambio usata per avvolgerci il piccolo. E poi io che gli grido “Ragazzo, trova delle forbici!” ma il povero non le trovava… Lo ricordo svuotare nevroticamente qualsiasi cosa ci fosse nel suo abitacolo, con la foga di un rapinatore, era tutto per terra, poi caddero da uno sportellino.

E poi ricordo di avergli tirato via un laccio delle scarpe frettolosamente per annodarlo intorno al cordone. E, infine, quel “tac”, ricordo … imperante, un taglio netto, necessario.

Quando passai il bimbo a Rea, qualcosa si aprì dentro di me. Mi sentii, per qualche istante, di nuovo davvero felice, piangevo e sorridevo e ricordavo la prima volta che tenni in braccio mia figlia.

Erano stati anni difficili per me quelli. La mia fertilità sbiadiva nella malinconia, mio marito era spesso assente, alle volte, temevo avesse un’altra donna … la mia bambina, ormai adolescente, mi guardava come un’estranea, il lavoro era duro e spesso ripetitivo. Credo che fossi caduta, in quel periodo, in uno strano vortice. Ma quel giorno, qualcosa fece uno scatto dentro di me. Mi sentii di nuovo utile e più viva che mai.

La luce pulita del sole appena sorto, intanto, entrava dalle vetrate con la discrezione di una carezza, illuminava Rea stremata, il suo volto chino sul piccolo fagotto, i chiaroscuri dei nostri profili vicini.

Ronnie, a quel punto, ci fissava stordito, come se fosse uno spettatore di quella vicenda, non uno dei protagonisti. Aveva quel leggero fremito ad una delle palpebre e agitava le mani, anch’esse tremolanti, come se non sapesse davvero cosa farne, poi si mordeva le unghie e fissava il bambino incredulo.

Mi rivolsi a lui: “Perché non provi di nuovo a farci ripartire?” Allora, lui si risvegliò come da un sogno e tornò, impacciato, alla sua postazione. Diede un colpo secco al motore che, questa volta, inspiegabilmente, reagì ai comandi: fece marcia indietro e accelerò veloce verso la fine della strada. Dopo pochi minuti, l’N3 per il Lido era già nella rotonda di Ostia.

Ronnie corse a cercare qualcuno che potesse farci chiamare un’ambulanza, trovò un bar che aveva da poco alzato la saracinesca.

Rea, nel frattempo, mi chiese di aiutarla a scendere: “Mi voglio mettere su una di quelle panchine Rosy” Mi disse premendo il suo dito sul vetro. Quel gesto mi fece pensare ad uno stato di prigionia, oppure, forse, al capriccio di una bambina, era tenera e amara al tempo stesso, la bella Rea. “Fammi scendere, prendi Sebastiano, voglio che senta il mare.”

Rea strinse Sebastiano al petto e chiuse gli occhi per qualche istante poi me lo lasciò, nonostante la latente reticenza.

Non appena scese, mi accorsi sgomenta che la donna che avevo appena aiutato a partorire camminava normalmente senza che io la dovessi aiutare. Aveva addirittura un’andatura svelta, superò la panchina che mi aveva indicato, e si diresse vero la riva. C’era una forte corrente e le onde erano grandi. Io gridai “Ferma, dove vai! Aspettaci!” Ma Rea stava già correndo, con le falde della sua gonna tra le mani ed i piedi veloci sul bagnasciuga. Si allontanava, mentre le mie grida si disperdevano nell’aria.

Ronnie si scaraventò fuori dalla porta e poi iniziò a correre dietro a Rea.

Ma non c’era niente da fare, io la vidi sparire, rarefarsi come la spuma quando batte su uno scoglio, si disintegrò come l’esplosione che l’aveva uccisa. Rea e la sua storia.

Rimasi con il bambino tra le braccia e lo strinsi con la paura che potesse sparire anche lui, da un momento all’altro, come la madre, inghiottita dall’orizzonte albeggiante di quel ribollente luglio romano. Ma lui non se ne andò, lui rimase, rosso sulle guancette deliziose, con i pochi capelli biondi incollati alla minuscola testa, e gli occhi spalancati e fiduciosi. Aveva attorno la copertina rossa che gli aveva lasciato la mamma, con cucito il suo nome e un verso di Shakespeare: “Il paradiso è qui. Dove Giulietta vive”.

Cosa ne sarebbe stato di lui?

Lo guardai con l’orgoglio con il quale si guarda ciò che è compiuto, ciò che è, innanzitutto, estremamente giusto, come qualcosa anche di mio. Sapendo, dentro, che presto me ne sarei separata.

Davanti a noi le onde si riempivano di ossigeno, di sale e di echi sottili e sovrapposti, come tanti bisbigli e mormorii e ritornelli di canti contenuti in strofe da marinai e da darsene gremite. Nulla ci appartiene, non la vita, né gli oggetti, né le persone che incontriamo, pensai. Solo al vento apparteniamo, al soffio che crea e che distrugge, che fa e disfà. Ce ne stiamo qui, affaccendati, concentrati, ad intrecciare le tele ed i nodi, ad orientare le vele, a curarci che non si strappino, ma non è nostra la sorte, nostra è solo la volontà.

Ronnie ritornava, intanto, dalla sua inutile corsa. Pover’uomo, rischiò anche il posto per quella vicenda.

Sulla sabbia umida delle prime ore del mattino, le nostre ombre si allungavano silenziose e complici nella direzione verso la quale Rea era fuggita. L’impronta dei miei mocassini neri affondava nei solchi umidi della sabbia, tenevo le dita sul cuore del bambino per essere certa che non smettesse di battere, mentre Ronnie poco dietro, si accendeva una Camel blu, piegato per lo sforzo appena compiuto, con i palmi sulle ginocchia doloranti. Eravamo tre imperfetti sconosciuti: io, il bambino e lui, uniti per pure caso da una folata di venti convergenti.

Quando arrivò la polizia ci interrogò per due giorni, convinta che c’entrassimo qualcosa con la nascita di Sebastiano e con la fuga di Rea. Ma io e Ronnie non ne sapevamo davvero nulla, le nostre versioni coincidevano e, alla fine, dovettero lasciarci andare. La nostra relazione dei fatti era tanto incredibile quanto coerente.

Gli telefonai ogni tanto, per sapere come stava, condividevamo uno strano bel ricordo, del resto. La storia finì sui giornali, i nostri nomi, per fortuna, furono mantenuti segreti. Dopo qualche giorno, fu superata da notizie più interessanti, più urgenti.

Sebastiano fu dato in adozione, non mi fu concesso sapere a chi, né dove.

E così sono passati tutti questi anni. Il pensiero che mentre la mia vita scorreva, da qualche parte, anche Sebastiano stesse crescendo, mi ha dato una carica ed un senso di compiutezza che mi ha permesso di dedicarmi agli altri con inesauribile energia in questi anni. Il ricordo di quella bizzarra notte è stato un catalizzatore di amore, di lì in avanti mi ha sempre accompagnato la sensazione che, molto probabilmente, non sia tutto qui.

Tuttavia, non ho più cercato quel bambino dopo il 19 luglio del 1993.

Mai più nulla, fino a qualche mese fa...

Mi capitò lo scorso inverno, di leggere per caso, sulla pagina culturale di un quotidiano, l’intervista ad un giovane attore, protagonista dell’Edipo re. Si leggeva nell’introduzione: “La celebre tragedia greca è stata riadattata e riportata nella sala del Teatro Argentina, ed ha ricevuto, fin dal debutto, un grande successo, grazie ad un’ottima regia e all’eccellente interpretazione di Sebastiano Armidei, l’attore esordiente, diplomato alla Silvio d’Amico che impressiona e affascina con la tenace verità della sua arte”. Guardai l’immagine che accompagnava l’articolo: non poteva che essere lui, ne ero sicura, il bambino che avevo fatto nascere ventisette anni prima sull’N3 per Ostia Lido. Nella foto i suoi lineamenti apparivano marcati e magnetici, proprio come quelli di Rea, gli occhi allungati e ferini, le sopracciglia cariche di vita e quel sapore di rabbia, di ruggine e di ossa mi tornò alla memoria come un’onda di poesia, dagli occhi, fino allo stomaco, dritto, dentro quel posto dove teniamo certi fiammiferi accesi a ricordarci il senso più profondo e dove iniziano tutte le cose.

Ma quello che mi colpì di più, più della sua foto, e che mi tolse ogni dubbio sulla sua identità, fu la risposta alla domanda su ciò che lo legava all’opera recitata. Sebastiano rispondeva: “Sono stato anche io, come Edipo, abbandonato. C’è, nella ricerca delle proprie origini, un grido che rivendica giustizia per quel non luogo interiore che va a tutti i costi colmato”.

Decisi così di assistere all’ultima replica dello spettacolo di Sebastiano. Chiesi a mio marito di accompagnarmi e, nonostante la mia incerta salute, andai a rivedere a teatro quel bambino ormai cresciuto, il cui ricordo non mi aveva mai lasciata. Emozionatissima mi preparai per la serata.

All’uscita dal teatro Rea era lì, alla stessa fermata dove era salita tre decadi fa, con le mani giunte in vita che tenevano una piccola borsa blu. Il vestito era lo stesso che indossava quando partorì Sebastiano, ma questa volta i lacci erano stretti dietro alla sua schiena dritta e la gonna le ricadeva intorno ad un corpo ora magro, non più gravido.

Si girò a guardarmi e restò lì, in silenzio, come se fossi in ritardo al nostro appuntamento.

Poi ci sorridemmo, proprio mentre un folto gruppo di persone passò tra di noi. L’istante dopo, lei già non c’era più. Mio marito mi prese per mano e mi disse: “guarda, è uscito l’attore!”. Mi voltai a guardarlo e Sebastiano era alle porte del teatro, salutava gli spettatori entusiasti e posava per delle foto con loro. Poi le comparve accanto una ragazza con dei grandi occhi azzurri, i capelli lunghi e neri spettinati intorno al corpo formoso, dei blue jeans stretti sulla vita alta, un brio di allegria che trapelava da ogni suo particolare. Doveva essere la fidanzata o forse la moglie. “Andiamo a festeggiare, amore mio” gli disse.


Questo racconto è per lui e per tutti i figli di nessuno, che, in un modo o nell’altro, hanno cercato tanto le loro radici, pur avendole già dentro di loro.


* Cecilia Lavatore (Roma 1990) è insegnante di Lettere e sta preparando il suo primo romanzo.

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