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Aprile - Amico di tutti / Un racconto di Bruno Olivieri



Taratta-cium Tatà, Taratta-cium Ta… Una piccola banda, tromba, bombardino, una grancassa con il piatto in cima e un trombone, precede il corteo, una ventina di persone. Da dietro il bancone, Oreste scuote la testa con un mezzo sorriso quando li sente arrivare. Il 25 aprile è giorno di festa, il locale è pieno e non c’è tempo per stare a pensarci su troppo. Il corteo con la banda in testa passa davanti alle vetrine del locale, gira l’angolo e subito si ferma al primo portone. Lì c’è una lapide: In questa casa è vissuto…, segue un nome e sotto ancora Milano 15 giugno 1925 – Mauthausen 28 marzo 1945. Si fa silenzio. In due si staccano dal gruppo, hanno uno sgabello, sono organizzati. Sotto la lapide viene appesa una corona d’alloro, con una striscia tricolore dove si può a leggere a lettere dorate la sigla dell’A.N.P.I. e il nome della Sezione. Pochi secondi di silenzio poi la banda riattacca Bandiera Rossa. Tarattacium Tatà, Tarattacium Ta… e tutto il gruppo si rimette in marcia.

   Nel locale di Oreste si alzano commenti a gran voce. C’è chi dice che gliela suonerebbe lui la canzone a quelli là, c’è chi alza la voce per zittire lo spaccone e chi la alza ancora di più per chiedere un altro litro di rosso perché – dice – è l’unico rosso che gli interessa.

  Oreste da dietro il bancone sente tutto, ma ascolta solo quello che chiede il vino: lui è lì per quello, servire il vino alla mescita. Di tutte le altre storie non vuole sapere né sentire niente. «Io sono amico di tutti» dice sempre «e non sono amico di nessuno». È la sua filosofia, non immischiarsi nelle faccende che non lo riguardano, che siano di politica, di sport o altro. «Se vuoi gestire un locale devi fare così, l’ho imparato da mio padre. Lui ha fatto così e si è sempre trovato bene». Ripete questa lezione ogni volta che deve assumere qualcuno per servire ai tavoli. Il penultimo al quale aveva fatto il discorso era stato Riccardino, tutti lo chiamavano Dino, un bauscia di diciassette anni che prima gli aveva dato ascolto, ma poi aveva cominciato a questio- nare con i clienti. E se uno era del Milan lui tifava Inter, e se l’altro aveva una Gilera lui era per la Guzzi, e se uno diceva che Bartali era stato il più grande lui attaccava che Gimondi era meglio. Alla fine aveva cominciato a dire la sua anche in politica e allora Oreste aveva perso la pazienza e l’aveva lasciato a casa. Per sostituirlo aveva deciso di prendere una ragazza e così aveva trovato la Lina, che non era più ragazza da qualche anno ma così era anche meglio.

   «Perché le donne» fu la motivazione di Oreste «non si interessano di calcio né di sport in generale e di politica non ne capiscono niente». Poi con la Lina non c’è pericolo che vengano fuori problemi di altro tipo, neanche con la moglie di Oreste. Perché la Lina non è questa gran bellezza, sì, è alta e robusta, ma con un viso dai lineamenti irregolari e sgraziati. Di bello ha il carattere, sempre di buon umore, sorridente e con la battuta pronta, da subito è stata simpatica a tutti. In più ha quel piccolo difetto, quasi impercettibile, dell’andatura claudicante e con questo, suo malgrado, aveva conquistato la fiducia di Oreste, il quale aveva evitato la divisa proprio grazie a una gamba leggermente più corta dell’altra; e per uno che nel ’43 aveva compiuto diciott’anni era stata una bella fortuna.

Nel trani di Oreste c’è posto per tutti, nella sala grande su una pare- te ha messo la bandiera del Milan e su un’altra quella dell’Inter; nella sala coi biliardi – uno per la stecca e uno per le boccette – è appesa una bandiera della Juve, più piccola perché quelli sono di meno. «Ma si offendono facilmente» dice Oreste. Nella saletta dove si gioca a carte, invece, non ha appeso niente, perché in quella saletta lì non si può scherzare. Non che si giochi a carte solo lì, perché su tutti i tavoli del locale la scopa e la briscola chiamata sono praticati con un accanimento e una dedizione meritevoli di una causa migliore del litro di rosso che c’è in palio per ogni partita vinta. L’unico problema semmai è che se uno vince troppo, immancabilmente poi comincia a perdere per l’eccesso di premi vinti e consumati. Ma le discussioni al massimo fanno salire il volume delle voci e il peso delle manate o dei pugni pestati su un tavolo quando il compagno sbaglia la giocata.

Nella saletta piccola, invece, ci sono clienti un po’ diversi. Si gioca a soldi anche se non si potrebbe, ma lo sanno tutti e anche Oreste. Lì ci vanno solo clienti speciali, di quelli a cui non si può dire no. L’unica raccomandazione che gli ha sempre fatto Oreste è di lasciare il ferro a casa, per favore, perché lui è amico di tutti e storie non ne vuole, né con loro né con la madama. E poi molti di loro li ha proprio visti crescere, erano ragazzini alla fine della guerra, sono venuti su facendo gli zanza – sempre fuori del quartiere s’intende – poi crescendo gli è cresciuto anche l’appetito e hanno cominciato con storie più grosse. Ma finché si limitano a giocare a carte fra di loro non c’è pericolo. Al massimo qualche volta hanno portato qualcuno da fuori per ripulirlo, approfittando del fatto che non essendo del quartiere non poteva conoscerli di fama.

Un quartiere così, quello di Oreste, dove il buono e il cattivo si sono sempre mescolati. «Come dappertutto» sostiene Oreste. Nel suo locale forse il campionario non è quello della merce più fine, ma è tutta gente che non dà fastidio a nessuno. La gente che lavora non ha tempo da passare all’osteria, ma quando c’è stato bisogno perché, per esempio, qualcuno aveva perso il lavoro e aveva moglie e figli da mantenere, gli amici sono venuti anche qui a battere cassa. «Il Luigi, quello che sta in Vergani 11, ha bisogno. Qui c’è la busta. Passiamo a fine mese». E Oreste ci ha sempre messo del suo. È un mondo così, dove la solidarietà operaia è ancora un valore concreto. Lo sanno bene anche in fondo alla strada, alla cooperativa. Stessi giochi di carte, stesso vino – perché il fornitore pugliese passa da loro come da Oreste – ma una sola bandiera, rossa naturalmente.

Dall’altro lato della piazza si sente di nuovo suonare la banda. «Sono tornati, hanno finito il giro!» annuncia lo spaccone di prima, quello che voleva cantare un’altra canzone. La Lina gli passa vicino e gli dà uno scappellotto, lei se lo può permettere senza che nessuno protesti.

Ta-cium – Ta-cium ta-cium ta-cium – Parappapà… La manifestazio- ne si conclude in maniera meno ortodossa con la banda che suona l’Internazionale, ma queste sono sfumature che non tutti possono co- gliere. È stata una sorta di processione laica, un rito che si ripete tutti gli anni il 25 aprile. Fanno il giro del quartiere e rinnovano le corone d’alloro sotto tutte le lapidi messe a fianco dei portoni in memoria dei partigiani che abitavano lì e che hanno perso la vita tra il ’43 e il ’45. Le lapidi sono parecchie e questo la dice lunga sugli abitanti della zona, per questo la celebrazione occupa una buona parte della mattinata di festa. Il repertorio della banda è limitato e suonato con approssimazione ma tanta buona volontà. L’importante è farsi senti- re e non dimenticare.

Oreste ne avrebbe molte da raccontare, sono passati più di vent’an- ni, ma preferisce tenerle per sé e restare amico di tutti e di nessuno. In realtà un vero amico Oreste ce l’ha avuto, nato lo stesso anno, stesso portone, quello di fianco all’osteria, stessa scuola, stesso oratorio. Si chiamava Albino e da ragazzini erano inseparabili, soprattutto nelle incursioni oltre la ferrovia, verso il centro della città, durante le quali si divertivano con iniziative al limite del lecito, a volte approfittando della leggera zoppia di Oreste per imbastire storie lacrimevoli con cui inducevano le signore eleganti a passeggio nei giardini pubblici a offrire loro qualche bibita, o un gelato se non addirittura farsi allun- gare qualche moneta da spendere poi in dolci o sigarette. Crescendo poi avevano spostato l’obiettivo delle loro piccole commedie e si era- no dedicati alle servette o alle balie che, sempre ai giardini, avevano l’incarico di badare ai bambini delle famiglie benestanti. In quei casi l’abilità era nel farsi credere più grandi dei loro tredici o quattordici anni, dando improbabili appuntamenti serali alle più sprovvedute fra loro, spesso ragazze semplici provenienti dalle valli o da paesini di altre regioni. Di giorno, sedendo sulle loro stesse panchine, facevano gli spiritosi, offrendo una bibita o qualche liquirizia, magari allungavano le mani quel tanto che bastava a sondare la malizia e rendere più credibile la maggiore età dichiarata; la sera poi non si presentavano all’appuntamento ma restavano nascosti nelle vicinanze per divertirsi nell’osservare l’attesa delle ragazze, l’ansia, la rabbia o la disillusione. E ridere magari della lacrimuccia sfuggita alla sventurata di turno. Divertimenti innocenti, in fondo, ispirati da un sadismo infantile, simile a quello dei bambini che si trastullano nel torturare una lucertola o un insetto. Albino era figlio di un operaio edile socialista, che era riuscito a tenere il figlio lontano dalle adunate dei sabati fascisti, liquidandole come "pericolose pagliacciate", anche a costo di vederlo penalizzato nella valutazione del rendimento scolastico. Tanto poi la scuola era finita presto e Albino aveva cominciato a seguire il padre nei cantieri. Oreste invece, sempre a causa o grazie alla lievissima disabilità, era a sua volta esente dalle attività previste dal partito per la gioventù; il padre se ne mostrava avvilito e dispiaciuto, ma in cuor suo era felice che Oreste non fosse in nessun modo compromesso, sempre per la filosofia dell’essere amico di tutti e di nessuno, perché oggi va così ma un domani non si sa mai cosa può succedere. Purtroppo, gli anni della prima adolescenza di Oreste e Albino furono funestati dall’entrata in guerra e l’anno peggiore fu quello proprio in cui i due ragazzi avevano raggiunto i diciott’anni, un momento in cui era diventato veramente molto difficile sfuggire alla scelta di stare da una parte rispetto all’altra e sempre comunque correndo gravi rischi. Oreste una volta di più fu salvato dalla sua gamba, più corta di poco ma quel tanto che bastò a tenerlo lontano dalla divisa. Albino invece non ebbe dubbi e quando in novembre arrivò la chiamata alle armi si guardò bene dal presentarsi; non disse nulla in casa per non compromettere la famiglia, soprattutto il padre che da sempre non era visto di buon occhio. Sapendo di certi amici che erano tornati dal fronte e si nascondevano, si unì a loro per andare in montagna. Si dissero così, senza ancora sapere bene cosa andassero a fare e dove, ma di certo non volevano essere dalla parte che aveva messo in moto la tragedia. L’unico a essere informato delle sue intenzioni fu l’amico Oreste, il quale non fece altro che raccomandargli prudenza, lui così poco abituato alle scelte non riusciva a capire e ben presto si accorse di cosa vuole dire essere soli, avendo perso la compagnia dell’unico amico.

Ogni anno, il 25 aprile, Oreste ci pensa, è impossibile non farlo. La targa sul portone di fianco all’osteria riporta il nome del suo amico, Albino e ogni volta che ci pensa, Oreste si ripete sempre la medesima domanda: Perché? Ne è valsa la pena buttare via la vita a vent’anni?. E ogni anno non sa darsi una risposta. In fondo lui che colpe ha? Sempre amico di tutti, non l’hanno voluto da una parte perché era uno zoppo, gli hanno detto. E in montagna non poteva certo andarci, non sarebbe stato utile; poi c’era l’osteria da mandare avanti, suo padre era anziano, insomma, era andata così. In più, quando ci pensa gli viene sempre in mente anche suo zio Gaetano, Tano per gli amici e in famiglia. E quella è un’altra bella storia, sempre parlando di gente che è finita male. Anche dello zio sono rimaste tracce vicino all’osteria, sul muro della chiesa, dall’altra parte della strada. Sono tracce meno evidenti, i buchi delle pallottole di quando l’hanno fucilato, proprio lì, davanti a tutti. Solo il prete dell’oratorio aveva avuto il coraggio di gridare da un balcone: «Voi non avete il diritto!» ma non l’hanno nemmeno ascoltato, hanno tirato subito sullo zio e altri due che erano con lui. Erano giorni che si andava per le spicce a far giustizia, erano successe troppe cose brutte e qualcuno ne ha approfittato per farla pagare anche a chi di colpe ne aveva poche. Come nel caso di mio zio, pensa Oreste. Lui era solo un povero pirla. Nel ’22 era un tagliato fuori, troppo giovane per aver vissuto le trincee e in ogni caso nessuno lo prendeva sul serio, un giovanotto magrolino e timido, con un difetto di pronuncia che lo faceva balbettare. Suo fratello, il padre di Oreste, quando parlava di lui sembrava sempre si vergognasse un po’ e non ce lo voleva in osteria. Lo zio Tano, a differenza del fratello, aveva capito che era più conveniente essere amico di quelli giusti e all’epoca gli amici utili erano quelli che por- tavano la camicia nera. Allora aveva cominciato a farsi vedere in giro con certe compagnie, si era iscritto al partito esibendo orgogliosa- mente il distintivo sul risvolto della giacca e aveva imparato a dire sì quando conveniva dire sì e a fare la faccia brutta quando incontrava per strada certa gente, tipo il padre di Albino, che lo sapevano tutti che era socialista e allo zio Tano se lo sarebbe tolto dai piedi solo usando la forza di mezzo braccio, da tanto che era forte, mentre lo zio era proprio mingherlino. E poi Tano non sarebbe stato capace di fare male a nessuno, al massimo poteva fare la faccia brutta e poi tirar via senza voltarsi indietro. Ma ci sono momenti nella storia che anche aver fatto la faccia brutta è sufficiente perché qualcuno voglia fartela pagare. Oreste se lo ricordava bene lo zio quando al sabato si metteva la divisa per andare all’adunata, con gli stivaloni neri lucidi e la giacca che sembrava sempre troppo grande, così come il berret- to. Perché lo zio Tano era proprio piccolino, come piccola era la sua anima: un pusillanime o un povero di spirito, come l’aveva definito il parroco. Fatto sta che quando nel ’43 l’hanno chiamato lui non po- teva dire di no, o meglio, ci aveva anche provato ma ecco che tutta la sicurezza gli era venuta meno e aveva ricominciato a balbettare e alla fine aveva detto sì. Così gli hanno messo un moschetto in mano e andava in giro a fare le ronde in compagnia di certi brutti ceffi e di altri ragazzi dalla faccia pulita ma la mente confusa. Però non aveva mai sparato un colpo, che a malapena sapeva distinguere il calcio del moschetto dalla canna. Però non gliel’hanno perdonata, perché negli anni buoni era tale la sua smania di farsi notare, di controbilanciare la sua vita da magrolino balbuziente portando divisa e stivaloni, che aveva finito per assomigliare troppo a certi caporioni, i quali invece se le meritavano tutte però se la sono cavata e adesso sono ancora in giro e al sabato al posto dell’adunata si accontentano della ciucca dall’Oreste. Povero zio Tano!, pensa Oreste asciugando i bicchieri. La giornata è stata lunga ma a una certa ora ha mandato a casa la Lina e cacciato fuori tutti, oggi se lo poteva permettere. Adesso che è da solo, con le clèr mezzo abbassate, ripensa alla sua vita, agli amici che non ha avuto, a quel poco di benessere che si è conquistato cercando di avere sempre buoni rapporti con tutti, un po’ come fa con sua moglie che lo ha accettato anche con la gamba un po’ più corta, povera donna, in fondo le vuole bene e pazienza che sono rimasti sempre soli e l’osteria chissà a chi dovrà lasciarla, certo non a quel ciula di suo cognato. Che silenzio c’è adesso, quasi rimpiange la banda della cooperativa. Mette a posto l’ultimo bicchiere, spegne le luci poi tira fuori qualche cosa che aveva tenuto da parte sotto il bancone e si avvia a chiudere il locale. Fuori fa fresco, perché si sa che aprile non è ancora detto che sia caldo. Allora si stringe nella giacca e fa pochi passi, si ferma davanti al portone vicino e guarda in su, verso la lapide col nome di Albino. Ma chi te l’ha fatto fare?, pensa. Nessuno, non te l’aveva chiesto nessuno, mica c’era bisogno anche di te. O no? Intanto guarda i tre garofani che aveva tenuto nascosti sotto il bancone. Sono rossi e un po’ avvizziti, tenuti insieme da un pezzo di stagnola. Poi si guarda in giro, controlla che non lo veda nessuno, ma tanto non c’è più nessuno in giro a quell’ora, allunga un braccio e i fiori li appoggia alla corona d’alloro. Speriamo che restino su, si dice, almeno qualche giorno. Poi, siccome sente un po’ di commozione e un occhio che si inumidisce, gira sui tacchi e prende la strada di casa. Passando davanti al muro della chiesa rallenta, butta un occhio ai buchi delle pallottole che sono rimasti lì, non si sa se per trascuratezza o se per monito a chi deve capire, si ferma, scuote la testa, Ciao zio Tano!, pensa. Che pirla sei stato!


* Alcuni fatti riportati nel racconto sono liberamente ispirati a vicende e luoghi reali. I nomi, i personaggi e tutto il resto sono totale frutto di fantasia.



Bruno Olivieri è giornalista professionista, si occupa di Information Design e Motion Graphic per aziende e istituzioni. È stato direttore artistico del Festival dell’Umorismo di Bordighera e ha lavorato con il Teatro dell’Elfo di Milano. Nel 2022 ha pubblicato Un anno diverso dagli altri, da cui proviene questo racconto per gentile concessione dell’editore Scatole Parlanti.


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