Lo storico editore di «aut aut», Arrigo Lampugnani Nigri, raccoglie in un prezioso volume (edito da Stampa2009 e in parte fotostatico) l’esperienza culturale della rivista «Questo e altro», diretta nel 1962 da Niccolò Gallo, Dante Isella, Geno Pampaloni e Vittorio Sereni, e uscita con otto numeri fino alla chiusura nel ‘64.
Un’esperienza umana, prima ancora che intellettuale, vissuta con importanti implicazioni civili. L’impegno dialettico è evidente fin dai primi numeri, anzi dalle lettere e dagli appunti che precedono l’antologia; documenti che testimoniano il confronto diretto all’interno della redazione e il comune intento di fare chiarezza, di distinguere, sostanzialmente, ciò che è poesia da ciò che è «extra-letterario», opera del travestimento della cultura di massa. In filigrana, la critica a un approccio predigerito della letteratura e dell’arte, che pretende di offrire precetti. Come ricorda la curatrice, Valeria Poggi, sfogliando la rivista colpisce la straordinaria attualità del dibattito, per esempio nella constatazione del «disagio del rassegnarsi all’ecclettismo, del compiacersi della Babele linguistica, culturale e spirituale come propria della crisi del nostro tempo». Le lettere dell’editore con Raboni, Manzù, Sereni, Fortini, Paci, Guttuso, Mondadori, presentano il backstage della rivista. Emoziona leggere, per esempio, il confronto tra Sereni e Fortini, sempre ricondotto a una comunanza umana profonda. A completare la prima parte del volume c’è un’intervista al filosofo Salvatore Veca.
Dal primo editoriale al saggio su Manzoni di Dante Isella, dall’intervento di Raboni su Rebora o sul concetto di salute in poesia («posso solo farvi sentire, attraverso un non-eroe, la misura della mia disperata evasione»), tutto invita a riprendere il discorso. Così la lucida autopsia del grande Enzo Paci mostra l’importanza di un ragionamento verificato: «La nostra letteratura, la nostra poesia, la nostra arte, la nostra musica, sono in crisi. Noi siamo in crisi... Ci viene chiesto di non fuggire dalla realtà, di non evadere. Di essere realisti... e siamo d’accordo. Ma troppo spesso ci vien richiesto dal di fuori, con un giudizio precostituito, con una interpretazione già data o con una teoria, con una ideologia. Ora un’ideologia, nel suo preciso ed autentico significato, non è una verità quanto, piuttosto, un misconoscimento o un rivestimento di idee, un Ideenkleid... Spesso la polemica si volge contro l’individualismo, l’intimismo, il soggettivismo. Cercheremo di sintetizzare. Ci limiteremo a richiamarci a Proust e soprattutto a Joyce... si esprimono in prima persona. Ed a proposito di ambedue si parla volentieri di soggettivismo intimistico. Ma questo giudizio è paradossale e il paradosso, analizzato, rivela il contrario di ciò che si vuol affermare nel giudizio o, meglio, nel pregiudizio». O poco più avanti: «Un altro aspetto del paradosso riguarda la tecnica e, più precisamente, il linguaggio. La polemica contro il soggettivismo si unisce spesso alla rivalutazione astratta dei mezzi tecnici espressivi... L’astratta analisi linguistica si proietta sull’opera in formazione e il linguaggio stesso viene dedotto. Il fatto è significativo: rivela un dualismo tra l’uomo che opera come scrittore e lo scrittore separato dall’uomo, tra il soggetto ed i suoi mezzi di espressione. La descrizione tentata da Adorno non ha mancato di esercitare ilo suo fascino anche se questo non consegue direttamente dalle acrobazie adorniane. In una situazione alienata, si dice, l’arte non può che esprimere l’alienazione... Se posso esprimerla, anche quando mi si rivela nei più foschi colori, è perché io, nel punto di vista nel quale mi devo porre per esprimermi, sono attivo e ho superato l’alienazione... Il soggetto, se davvero sperimenta (se «vive» nel senso dell’Erlebnis) qualcosa, se davvero lo fa proprio, rivela a sé e agli altri – intesi e sperimentati come soggetti – l’intenzionabilità positiva del mondo e della storia. La letteratura e l’arte non sono un’aggiunta alla storia “vissuta” dagli uomini. Sono sempre e fin dall’inizio un modo di vita umana e sociale... La crisi può e deve essere superata, nella consapevolezza della ripetizione seriale di cui parla Sartre nella Critique... Può essere superata soltanto se si ritorna al soggetto concreto ed individuato, a noi». Illuminante in tal senso è anche l’articolo di Cesarano sulla pittura contemporanea: «Degradando, per comodo, l’indagine al livello della psicologia si è venuto descrivendo tutta una serie di poetiche degli stati d’animo...eredi del Romanticismo ottocentesco, il quale vide il rapporto uomo-mondo soprattutto sotto il segno della reciproca disparità e inadeguatezza (cfr. Lukàcs giovane) o per eccesso o per difetto dell’ego, implicando addirittura la nozione del fallimento di tale rapporto come alcunché di fatale... pertanto è sentire ancora a partire da un ottimismo di fondo che si vede nelle cose del mondo tradito e che si esprime liricamente in paesaggi interiorizzati, in figure appena deformate dallo strazio, ecc., a mano a mano che la dialettica interna di queste poetiche si va complicando si ha insieme un fenomeno di approfondimento filosofico e di banalizzazione al livello dell’espressione... Quelli che prima erano sentimenti presto vogliono diventare ragioni... La storia delle avanguardie è anche la storia d furore frustrato» - che è poi ciò che vediamo accadere da decenni nelle accademie d’arte o nelle facoltà di lettere, luoghi in cui i pochi studenti rimasti sono costretti a leggere (male, senza strumenti) i filosofi alla penultima moda, ignorando le tecniche e le opere.
La prova del nove delle buone intenzioni arriva facilmente dai testi proposti in presa diretta: gli inediti cruciali di Cesarano (contro la «catalessi del mondo»), di Luzi (nientemeno che un’anticipazione de Nel magma), di Raboni (dalle future Le case della Vetra, introdotto da Carlo Betocchi), o di Cattafi (con tanto di virus che «remigando giunge/alla terra promessa, in qualche/approdo del cuore per mettervi le tende») o, ancora, i sette movimenti di Una disperata vitalità di Pasolini, che sarebbe uscito di lì a poco per Garzanti in una delle sue più belle raccolte, Poesia in forma di rosa.
«Questo e altro» è stata pronta a partecipare a dibattiti nati anche su altre riviste - come nel caso del celebre intervento sul semaforo e sul «saperlo guardare» di Umberto Eco, partito dal quinto numero di «Menabò». È stata una rivista impegnata a identificare la «ragione letteraria» da «una zona apparentemente arretrata rispetto a quella oggi normalmente battuta, “dove la poesia non si deduca da un’altra o contro un’altra; non sia un oggetto che intrattiene rapporti con altri oggetti; non sia la cristallizzazione di uno scambio di merci, ma una relazione tra uomini”». Insomma, un vero stimolo per chi, come noi, cerca di mantenere in piedi quell’architrave intellettuale che in questi anni di disprezzo per la cultura rischia di franare, per chi, insomma, nutre un genuino interesse per le opere letterarie, più che per le teorie di parrocchia o per i surrogati. Temi (purtroppo) ancora attuali, perché ben poco è stato fatto per risolvere la confusione babelica, se ancora dobbiamo difenderci da chi, sulle pagine dei giornali e senza alcun titolo, prescrive perfino quali parole dovremmo usare nelle nostre poesie.
Alberto Pellegatta
GIORGIO CESARANO
AUTODROMO / 2.
Bianche e lontane, lentamente, nuvole
sopra l’orizzonte che ai rami alti
dei platani s’impiglia,
spicca la gazza codalunga,
ma qui esplode
un motore; sotto le suole
sul terrazzo del box, nel cemento
si trasmette una vibrazione, s’aggiunge
al frastuono che morde nei timpani, all’odore
volatile di ricino...
il cancello si spalanca,
un muso di bestia che annusa l’asfalto
esce adagio
poi intiera si vede la macchina,
ci si sporge a vederla, a leggere
la marca – ma la forma
ha già detto
ai tweed, ai giacchetti di daino,
ai blusotti di cuoio (poco numerosi
nel giorno feriale di prove).
Cammina
In tuta il meccanico, scorta la macchina
col fumo dello scappamento che sfiata
sulle ginocchia lente e le macchia.
Una calotta
azzurra il cranio del pilota
immobile mani guantate
e un’area rosea sotto gli occhialoni.
Accelera,
si schiacciano i pollici
sui pulsanti dei cronometri.
(Il coniglio:
- selvatico – nella siepe
della curva,
prima schiacciato
dal rumore che cresce che non finisce
mai e poi ammattito
quando quasi siamo all’odore urlante
della gomma,
si precipita
cieco. Nel pelo
parassiti e semi a uncino di vegetazione
selvatica.
Troppo piccolo?)
*
MARIO LUZI
PRESSO IL BISANZIO
La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia
e il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro
non so se visti o non visti prima,
pigri nell’andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.
Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,
mi si fa incontro, mi dice: «Tu? Non sei dei nostri.
Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta
quando divampava e ardevano nel rogo bene e male.»
Lo fisso senza dar risposta nei suoi occhi vizzi, deboli,
e colgo mentre guizza lungo il labbro di sotto un’inquietudine.
«Ci fu solo un tempo per redimersi – qui il tremito
si torce in tic convulso – o perdersi, e fu quello.»
Gli altri costretti a una sosta impreveduta
dànno segni di fastidio, ma non fiatano,
muovono i piedi in cadenza contro il freddo
e masticano gomma guardando me o nessuno.
«Dunque sei muto?» imprecano le labbra tormentate
mentre lui si fa sotto e retrocede
frenetico, più volte, finché è là
fermo, addossato a un palo, che mi guarda
tra ironico e furente
(...)
Mentre pensi
e accordi le sfere d’orologio della mente
sul moto dei pianeti per un presente eterno
che non è il nostro, che non è qui né ora,
volgiti e guarda il mondo come è divenuto,
poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,
non la profondità, né l’ardimento,
mala ripetizione di parole,
la mimesi senza perché né come
dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine
morsa dalla tarantola della vita, e basta.
(...)
«Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro,
mi dico, potranno altri in un tempo diverso.
Prega che la loro anima sia spoglia
e la loro pietà sia più perfetta.»
*
GIOVANNI RABONI
CITTÁ DALL’ALTO
Queste strade che salgono alle mura
non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo
bianco e netto, senz’alberi, come un fiume che volta. Da qui alle processioni
dei signori e dei cani
che recano guinzagli, stendardi
reggendosi la coda
ci saranno novanta passi, cento, non di più: però più giù, nel fondo della città
divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce
come un catino... e poco più avanti, guarda
la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e proseguendo
a destra, in diagonale, per altri
trenta o quaranta passi – una spanna: continua a leggere
come in una mappa – imbrocchi in pieno l’asse della piazza
costruita sulle rocciose fondamenta del circo
romano
Grigia elisse quieta dove
dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati
come capponi, rimpinzati a volontà
di carni e borgogna purché non escano dalla piazza! I poveri
della città. A metà tra i due fuochi
lì, tra quattrocento anni
impiantano la ghigliottina.
*
BARTOLO CATTAFI
Da qui non puoi vederlo
devi ancora salire
o scendere gradini:
rotola perduto,
spinto da qualche vento sulla sabbia
sull’acqua trascorsa
della tua clessidra.
Intanto ami, abbracci, ignori
perché di là dal morbido, dal tenero, dal caldo
avverti un’ambigua rigidezza.
Non sai ch’è morto e ignori
l’anima aguzza, d’acciaio,
che ti scruta e attende
il come il quando il dove.
*
PIER PAOLO PASOLINI
UUNA DISPERATA VITALITÁ / II
(Senza dissolvenza, a stacco netto, mi rappresento in un atto
- privo di precedenti storici – di «industria culturale».)
Io volontariamente martirizzato... e,
lei di fronte, sul divano:
campo e controcampo, a rapidi flash,
(«Lei – so che pensa, guardandomi,
in più domestica-italica M.F.
sempre alla Godard – lei, specie di Tennesee!»,
il cobra col golfino di lana
(col cobra subordinato
Che screma in silenzio magnesio)
Poi forte: «Mi dice che cosa sta scrivendo?»
«Versi, versi, scrivo! versi!
(maledetta cretina,
versi che lei non capisce priva com’è
di cognizioni metriche! Versi!)
versi NON PIÚ IN TERZINE!
Capisce?
Questo è quello che importa: non più in terzine!
Sono tornato tout court al magma!
Il neo-capitalismo ha vinto, sono
sul marciapiede
come poeta, ah [singhiozzo]
e come cittadino [altro singhiozzo]
E il cobro con il biro:
«Il titolo della Sua opera?» «Non so...
[Egli parla ora sommesso come intimidito, rivestendo
la parte che il colloquio, accentato, gli impone di
fare: come sta poco
a stingere
la sua grinta
in un muso di mammarolo condannato a morte]
- forse... «La Persecuzione»
o... «Una nuova preistoria» (O Preistoria)
o...
[E qui si inalbera, riacquista
la dignità dell’odio civile]
«Monologo sugli Ebrei»...
[Casca
il discorso come la debolezza dell’arsi
dell’ottonario scombinato: magmatico!]
«E di che parla?»
«Beh, della mia... della Sua, morte.
Non è nel non comunicare, [la morte]
ma nel non essere compresi...
(Se lo sapesse, il cobra
ch’è una fiacca pensata
fatta tornando da Fiumicino!)
Sono quasi tutte liriche, la cui composizione
di tempo e luogo
consiste, strano!, in una corsa in automobile...
meditazioni dai sessanta ai centoventi all’ora...
con veloci panoramiche, a carrellate
a seguire o a precedere
su significativi monumenti, o gruppi
di persone, spronati
a un oggettivo amore... di cittadino
(o utente della strada)...
«Ah, ah – [è la cobra con la biro che ride] – e...
chi è che non comprende?»
«Coloro che non ci appartengono più».
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