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Un equo risarcimento per le lesioni permanenti dopo anni di lavoro / Un racconto di Gianni Romano


La prima mattinata dalla mente sgombra dopo anni di lotte e minacce tramite avvocati volle rispettare un rigido iter di commissioni intervallate da soste ludiche prima di rincasare e consegnare la fresca novella alla sorella in attesa.

Loreno passò dalla prestigiosa coltelleria per ritirare il nuovo pezzo che avrebbe rimpolpato la sua collezione di lame custodita in una credenza dagli sportelli a vetri chiusi a chiave.

Le lunghe falangi della sua mano, impermeabili al dolore dopo anni di sfregamenti con la chimica di certi prodotti, accarezzarono appassionate l’affilatura sorprendentemente più luminosa rispetto a quanto promesso.

Depose quanto richiesto per l’ordine effettuato e riprese il passo avviandosi verso la merceria. C’era bisogno di bottoni dello stesso tono dei pantaloni su cui andavano cuciti.

Prima di rientrare volle concedersi una sosta veloce in distilleria dove bevve in una manciata di sorsate un’ambrata in bottiglia piccola; ma la giornata era gioiosa, che fossero anche due, le bottiglie, e se fosse avanzato un attimo non si sarebbe esclusa la terza.

Per finire furono quattro le birre ingollate tra una fetta di prosciutto offerta dal barista e deliri di brevi fughe al sud, dove aveva una casetta ereditata vista mare chiusa da secoli, progettati con lo stesso amico dietro al bancone.

Un’andata e ritorno di tre giorni, il tempo di un caffè e una frittura mista, sogni giovani mai realizzati, cazzate su cui fantasticare anche in quel presente dalle capigliature sempre più rade tenute uniformi da strati di lacca.

Salutò divertito Loreno, e con lo stesso umore si incamminò verso il bilocale, ancora sorridendo della trovata mentre alternava saluti ai passanti, tutti conosciuti il quartiere è vecchio, a sguardi minacciosi alle scarpe ricoperte di foglie secche da cambiare prima possibile con un nuovo paio, più lucido ed elegante.

La porta d’ingresso dell’ambiente unico condiviso con la consanguinea risultava al solito noiosa ad aprirsi per via del leggero cedimento di uno dei cardini che provocava una prima resistenza seguita dall’agghiacciante stridore del legno sulle piastrelle in gres.

«È andata. Abbiamo vinto, cara sorella, mi concedono la buonuscita, quei porci. E sapessi quanta. È un numero molto lungo, mai visto un numero tanto lungo. Ora sembreremo ricchi, quasi, almeno per un po’».

«Ma viva Dio, finalmente, quanto dovevamo aspettare ancora? Però stiamo calmi, niente follie, mi raccomando. Prima di ogni cosa c’è da sistemare l’entrata, non è vita sopportare quel rumore. E poi metteremo da parte tutto il resto, i soldi possono sempre servire. Ma sì, viva Dio, una bella notizia. Dopo quello che si è passato…».

Quasi dalla nascita fu fatta passare come la più scema, la lenta tra i due, questa sorella.

Lei stessa se ne convinse senza sforzo, segretamente fiera di quel vestito da martire cristiana, e si limitò a cucinare per entrambi, questa sorella, assecondando il pensiero comune che vedeva il figlio più grande come una bellezza rovinata dagli eventi, un attore mancato.

Pensava di essere in parte la coscienza senziente di quell’animo torturato, sempre in procinto di esplodere dopo l’ennesima beffa riservatagli dalla vita.


Loreno la odiava senza palesare, un po' per codardia e molto per convenienza, nessun sentimento verso l’esterno.

Fino a quel giorno quando si ritrovò di colpo con le tasche piene e trovò per miracolo il coraggio di sfogarsi.

«Adesso ti alzi su questo stesso sgabello e mi racconti cosa avremmo mai passato, perché di disgrazie, tolti i primi giorni non ne ho memoria, nonostante abbiamo diviso ogni cosa con l’amico Spavento, riducendoci alla miseria. Fammi questa cortesia: improvvisa un’orazione degna del più grande dei drammaturghi. Voglio anche riempirmi di spasmi.


Nessuno dovrebbe abituarsi alla miseria mai, eppure noi, al contrario l’abbiamo fatta nostra, da diligenti idioti. Forse possiamo anche scacciare via questi ospiti, almeno per un po’».

«Sei ingiusto, e di nuovo non rifletti. Sarai stanco o, peggio, sconvolto, così poco abituato. Andiamo a sdraiarci, l’euforia ci legherà stretti a giocare insieme dopo così tanto tempo. Faccio la capretta, ti ricordi? Non lanciarmi veleni addosso, proprio adesso che ho riacquistato calore. Andiamo a letto».

«No, IO vado a letto, oggi ti tocca la sedia. Voglio stare comodo questa notte. Niente caprini né altre bestialità. Sarebbe anche ora di cancellare certe abitudini, la gente parla solo di questo ormai».

Avevano passato un numero indefinito di stagioni dentro quella botola, lui e questa sua sorella, senza aver memoria del momento esatto in cui si ritrovarono lì dentro soli, dalla notte al giorno strappati alle effusioni materne da un’improvvisa mandria di fuoco nemico.

Terminato quel fracasso di lingue infiammate, nelle macerie presero la decisione di tenersi compagnia nella crescita, soggiogando a vicenda smanie e maniere.

Senza alcun rimorso si avviò verso la parete lontana della stanza, ma a metà cammino un’idea lo paralizzò.

Aprì la credenza dagli sportelli a vetri e posò lo sguardo su ogni singola lama. La loro luce squarciava l’aria fosca dal cattivo sapore che stagnava in bocca, reso ancor più denso dai ricordi appena emersi.


Gli arnesi custoditi provocano davvero una scintilla risolutiva.

Era l’ora di chiudere un cerchio.

«IO me ne vado a letto, e tu buona sulla sedia. per sempre. E domani si comprano delle belle magliette, larghe con delle scritte americane sul petto. IO me le compro».


La mente riuscì a staccare ogni lama dal rispettivo gancio, che d’improvviso si ritrovò sospeso in aria in attesa di ordini nuovi, fino a quando fu decisa la direzione.

Con grande velocità si spostarono fino ad accomodarsi in ordine di grandezza lungo tutta la parte sinistra del materasso, dritte verso il nemico come le baionette della Grande Guerra.

Un ultimo ringhio provenne da quel corpo di procinto si svestire per l’ultima volta quei panni tanto puliti quanto modesti prima di indossare un improvvisato pigiama.

«Buona, sulla sedia. Non ti avvicinare sai, che finisci tutta bucata!».

Protetto, o quantomeno amato, Loreno poté sdraiare la schiena, e si addormentò per la prima volta come un vero signore.


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