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Laboratorio di scritture e altre discipline

  • Immagine del redattoreRedazione


Faccio un bel respiro e mi dico che sono un uomo, simile a chiunque come chiunque mi è simile davanti a Dio. Mi metto la paura nel taschino e raccolgo sulle gambe tutto il nerbo dei miei trentacinque anni. Andiamo: lo guardo negli occhi e glielo dico, così, tutto d’un fiato. Ho bisogno di un aumento, gli dico, ed è giusto un attimo.

E-hm, – fa il mio capo. Sorride come se lo avessi invitato a cena. Cerca la posizione migliore sulla poltrona, mi esamina dalla testa ai piedi e con gli occhi sembra incoraggiarmi a leggere il menù. E allora vado avanti. A essere sinceri, mi confonde un po’ il suo silenzio, dato che generalmente urla. Ma ho una memoria di ferro e il copione delle mie buone ragioni lo conosco talmente bene che potrei recitarlo in metro giambico. Gli ricordo insomma che per lui mi spezzo la schiena da due anni, che in questo schifo di lavoro vengo sottopagato a dispetto dei miei meriti e gli ricordo anche che l’aumento me l’aveva promesso ben prima di avere un figlio in arrivo. Tutto questo riesco a dirlo con una pioggerella di mezze frasi, sorrisetti e formule di cortesia. Il livello della mia oratoria è tale che sorvolo tutte le false fatture che gli ho visto fare, consapevole come sono che un consumato evasore non avrebbe il minimo problema a concedermi un aumento. E infatti lui è lì, che mi guarda e annuisce. I suoi occhi sono pieni di insolita condiscendenza. Mi viene quasi il dubbio che non mi sia espresso nella lingua corrente, ma l’esperienza mi conforta e so bene che quando non capisce qualcosa, urla. Mi prende l’entusiasmo: è fatta, mi dico. Mi sembra quasi di vederlo a mezz’aria davanti a me, il mio agognato salario da manovale.

– Tu sai, – si decide a dirmi, con un sorriso svenevole da panna guasta – sai che con me hai sempre trovato le porte aperte.

– Sì, – mi affretto a mentire.

– Ti sono sempre venuto incontro. Per me non è un problema, lo sai, – insiste scuotendo appena la testa.

– Sì, certo, – dico tutto serio, e intanto mi viene da chiedermi se davvero non mi sbagli. Soprusi e angherie li ricordavo da parte sua, e insolenze, anche: screditarmi continuamente prendendosi il merito del mio lavoro, questo sì che non me lo levavo dalla mente; ma di mani tese non ne ricordavo. Forse è alle settimane di ferie pagate che si riferisce o, magari, a quella volta che mi ha chiamato un taxi.

– Non è l’aumento il problema. Però, quello che voglio che tu acquisisca, – pausa significativa con indice puntato, – e lo dico soprattutto nel tuo interesse, – fine dell’enfasi, – è un metodo di lavoro. Silenzio.

Cerca nelle tasche, prende una sigaretta. Senza nessuna fretta, lo vedo tirare fuori da un cassetto un accendino placcato in oro. Sento il suo silenzio dilatarsi nella mia testa come un fischio. Come sempre, accende la sigaretta senza darsi pena di domandarsi se fumarmi in faccia possa essere un problema per il mio asma. Espira una boccata con una disinvoltura di cui si compiace quando torna a guardarmi negli occhi.

– Voglio che tu capisca che questo è un mondo fatto di squali, dove ogni passo falso ti costerà caro. Non mi va che tu abbia ancora atteggiamenti superficiali che qui non possono essere concessi.

– Di cosa parla? – domando mentre il tamburo nel mio torace picchia più forte.

– Quante volte ho dovuto correggere errori banali fatti da te? – risponde allora con un orribile ghigno di satrapo.

Nella mente tento di trovare il modo più giusto per dire che un minimo errore può essere legittimo ma ho appena il tempo di bofonchiare qualche sillaba.

– Quante volte abbiamo dovuto lavorare fino a tardi perché TU eri in ritardo con il lavoro?

– Ma… questo non… non è assolutamente vero, – cerco di dire; niente da fare.

– E quell’errore nell’ultimo ricorso?

– Ma non è stato un errore mio, quello! – grido con una nota pietosa nella voce.

– Ma tu avevi il dovere di controllare, prima di consegnarmi il fascicolo – sorride oscenamente compito, soddisfatto di sé.

Cerco di dire che quello di controllare le marche da bollo è il lavoro delle segretarie, non il mio; che in ogni caso il ricorso non sarebbe stato viziato; cerco di non mettermi a gridare. Non mi lascia il tempo. Il respiro mi gonfia il petto.

- È dal primo giorno che lavori qui che te lo ripeto: qualsiasi cosa arrivi sulla mia scrivania deve essere perfetta. Non esistono scuse.

Chino lo sguardo a terra. Il parquet bruno si confonde come una sola enorme macchia di sangue rappreso.

– Lavoro quindici ore al giorno, – dice. – Non esco mai dallo studio prima della mezzanotte. Perché questo è il nostro lavoro. Ma tu non vuoi capirlo.

Mi alzo. Lui è lì che mi guarda come se fosse il Cristo risorto.

– Tu dammi un segnale di miglioramento, e io sarò felice di darti un aumento.

Lo guardo negli occhi: ci ha vomitato dentro un conato di bonomia, mi fa rivoltare lo stomaco. Con un sorriso impiastricciato mi dice – Siamo intesi, allora?

Annuisco e striscio fuori dalla stanza.

Le saracinesche sono giù da un pezzo quando cammino verso l’auto. La mia ragazza è a casa che mi aspetta, con una cena che si raffredda in tavola e un bambino che le cresce in grembo. La mia ragazza sempre lì a dirmi Michele, Michele, quand’è che ci sposeremo?

Oltrepasso le vetrine e i ristoranti più cari del centro e più in là, nel quartiere delle soste gratuite, la pioggia scroscia sporca. C’è un vecchio barbone accovacciato sotto il porticato davanti ai miei fanali: ha il naso schiacciato di un pugile suonato. La bocca non la vedo, perché la tiene ficcata sotto una trapunta. Le qualità per stare al mondo: per lui la questione è ridotta a tenersi stretto quella trapunta, per me si tratta ancora di un lungo elenco di mancanze che considero vagamente mentre guido fuori dalla città.


Una rotonda cambia la mia fortuna. Un macchinone non mi dà la precedenza e mi costringe a frenare prima di imboccare la terza uscita. Suono un colpo di clacson. Ma il macchinone prende la terza uscita anche lui; e anche lui suona il clacson, per giunta. Si piazza di traverso sulla corsia di destra e mi blocca la strada. Lo sportello si apre e ne viene fuori un bell’uomo: alto, ben piantato, ben vestito, con cravatta, cappotto lungo e tutto il resto. In una parola, è un grand’uomo quello che mi viene incontro, un uomo di successo. Non avrà neanche cinquant’anni e ha ancora il sangue abbastanza caldo per venire a urlare insulti al mio finestrino. Ha le pupille un po’ troppo dilatate. Avvocato anche lui magari, ma mica fallito come me. Ha tutta l’aria di uno che non inciampa sulle marche da bollo. All’incirca, quello che vuole sapere da me è che cosa avessi da suonare. Usa qualche parola poco carina prima di dare un calcio allo sportello. Mi dice di venire fuori dall’auto. Io me ne resto fermo, e allora lui, il grand’uomo, si indigna ancora di più per la mia vigliaccheria e specifica che tipo di testa abbia sul collo. E giù un altro calcio. Lo lascio fare ma lui continua. Ci tiene a ribadire che tipo di testa abbia sul collo, aggiunge pure che è brutta, e guarnisce tutto con un altro paio di bei calci. Allora aspetto che mi dia le spalle e finalmente scendo anche io.

Lui si volta immediatamente e prova a mettermi le mani sulla giacca: ma ho dimenticato di dirvi che, per quanto il mio guardaroba sia da due soldi rispetto al suo, anch’io sono piantato bene, e sono anche più alto. E infatti lo afferro per i polsi e, proprio con la brutta testa che ho sul collo, lo colpisco al centro di quel bel naso di merda.

Cade a terra come un sacco, il grande uomo. In strada non c’è nessuno: e così perché non dovrei rendere i calci presi dal mio sportello? È davvero un bravo sportello, protegge dall’asfalto le mie ossa immeritevoli da dieci lunghi anni e non dovrebbe ricevere i calci di nessuno, neppure quelli di un grand’uomo che non sbaglia le marche da bollo.

Per farla breve, gli do tanti di quei calci che il grande uomo si leva dalla mente l’idea di alzarsi. Eppure deve muoversi da lì, perché non è sicuro stare sulla carreggiata di notte. Così gli do una mano io: lo prendo per i capelli e con un altro bel calcione nel sedere lo faccio volare al sicuro tra il cofano del mio umile macinino e quello del suo suv.

Ma un dubbio mi assale proprio in quel momento: un grande uomo come lui – uno che ha un magnifico guardaroba, un magnifico suv e un magnifico pizzo – uno che dà tutto se stesso non solo in ufficio ma anche su strada, fino a prendersi la briga di scendere dall’auto per insegnare a un perfetto sconosciuto come me il modo più giusto di guidare – un uomo dotato di tale merito, vigore e dignità, avrà mai provato il freddo bacio dell’asfalto bagnato dalla pioggia?

Vale la pena guardare bene da vicino per accertarsene. Così mi avvicino, e vedo i suoi occhi che guizzano dentro i miei: occhi feroci, che mi chiedono conto di quello che ho fatto, di come ho osato cacciarlo su quel lurido asfalto. Strano a dirsi, di paura non ne vedo. C’è orgoglio ferito lì dentro, lo sdegno del grande uomo oltraggiato: la rabbia di chi vorrebbe picchiarti – nemmeno, di chi vorrebbe ucciderti, ma senza esserne capace, e allora sarebbe disposto a pagare qualcuno pur di farlo, magari di sottopagare qualcuno, e forse di grattarsi la pancia in doppio petto lamentandosi poi di un omicidio dopotutto grossolano, tirando persino sul prezzo. Ma di paura in quegli occhi proprio non ce n’è. E questo non mi va bene.

Gli tiro un pugno ancora dritto sul naso e le gambe su cui si stava sollevando cedono. Il bel naso che aveva è ridotto a una marmellata di ciliegie. Il sangue gli cola sulla bocca e sul collo fin sulla cravatta. Se ne sta in mezzo a una pozzanghera uggiolante, con le mani sulla faccia. I miei calci contro il suo corpo fanno lo stesso rumore di un tappeto battuto. Mi dico che è un peccato che nessuno lopossa vedere.

– Allora? – gli dico. – Ti sei bagnato il cappotto, eh?

Piazzo il mio ginocchio contro il suo torace, lo prendo per i capelli. Avvicino di nuovo il mio volto al suo e gli afferro il viso per piazzare ancora i miei occhi contro i suoi.

– Stai attento, brutto coglione – gli dico premendo il ginocchio sullo sterno: gli stringo i capelli e gli tiro un ceffone. Piazzo il mio indice contro quello che resta del suo naso. – Stai molto attento con me, hai capito?

Gli stringo la faccia con la mano sempre più forte. Mi mordo le labbra di rabbia fino a farle sanguinare. Finalmente vedo la paura nei suoi occhi.


All’alba non avevo ancora chiuso occhio. La mia ragazza si agitava nel sonno; quella grande pancia che le impediva di voltarsi, non mi riusciva di accarezzarla ora.

Non ero preoccupato per quello che sarebbe successo. Il grand’uomo non aveva potuto leggere la targa e, se anche lo avesse fatto, aveva il sangue zeppo di cocaina. In ogni caso, non me ne curavo. L’unica cosa che mi impegnava la mente, senza che potessi tranquillizzarmi, era quel naso. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a scacciare il pensiero che – schiacciato e pestato come lo avevo – era dannatamente uguale al naso del barbone.


** Luca Crucianelli è nato a Teramo nel 1981 ma vive a Bologna. Nel 2016 ha pubblicato il suo primo romanzo, Niente succede davvero (Eretica), segnalato dal Premio Calvino. Anche il romanzo inedito Gli esuli è stato tra i primi 29 testi segnalati dal Comitato di Lettura della XXXV edizione del Premio Calvino, “per la profondità psicologica e l’intelligenza emotiva".


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