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Laboratorio di scritture e altre discipline

  • Immagine del redattoreRedazione

Sergio Oricci è nato a Fiesole nel 1982 ma vive a Cluj-Napoca, in Romania. Ha scritto articoli e racconti su riviste («Osso Magazine», «The Catcher», «In Fuga dalla Bocciofila», «Yanez», «Cattedrale», «Tuffi», «Corriere Fiorentino», «Altri Animali» e «CrapulaClub») e antologie (Odi. Quindici declinazioni di un sentimento, Effequ). Nel 2019 è stato uno dei finalisti del concorso 8x8 di Oblique Studio. Ha pubblicato i romanzi Bianco Shocking (Ventizeronovanta 2014) e Cereali al neon. Cronaca di una mutazione (Effequ 2018). Ha fondato e cura la rivista «Clean».

Le brevi prose che abbiamo selezionato provengono da una raccolta appena uscita, Pesci di vetro (Gattomerlino), serrata e ariosa. Un lavoro di scavo per ritrovare il poeta da giovane, davanti ai traumi che lo hanno formato: «Mi sono sempre riufiutato di guidare e da ragazzo mi capitava di dover tornare a casa dopo che l’ultimo autobus era già passato. A volte camminavo, ma quando decidevo di chiamare un taxi, spesso non avevo abbastanza soldi per arrivare a casa, e finivo per chiedere al tassista di lasciarmi per strada al raggiungimento di una certa somma. “Quando arriviamo a quindicimila lire si fermi, per favore”, era quella che oggi interpreto come una dichiarazione di assoluta giovinezza. Le cose non sono cambiate molto negli ultimi venticinque anni. Non ho mai preso la patente, e in tasca ho un certo numero di strumenti che non sono mai abbastanza per arrivare alla fine del viaggio così come lo immagino prima di partire. Mi fermo e non so esattamente se ho percorso più strada di quanta ancora ne rimanga da fare; mi ritrovo in zone di confine dove la luce è poca, e in mezzo alla nebbia le insegne al neon di fast-food e negozietti sempre aperti sono incandescenze da cui farsi ipnotizzare. Non sono punti di partenza, ma neanche di arrivo, sono zone di transito, spazi residuali; luoghi in cui il mio tassista interiore ancora mi lascia quando il tassametro segna quindicimila lire».



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Passo ogni giorno dalla stazione centrale, che sembra ogni giorno sempre uguale; c'è un ragazzo che inizia a bere di mattina, e canta manele - perché siamo in Romania - fino a quando ha energia. Ha i capelli tirati indietro con un sacco di gel, è sempre a torso nudo se le temperature sono sopra lo zero; tutti i giorni gli stessi jeans. Qualche volta canta e balla davanti a un orso; è un peluche seduto su una sedia, che guarda la strada come fanno gli altri, alla fermata. Ieri l’orso teneva stretta una rosa, ma poteva anche essere qualunque altra cosa.



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Mi piacciono i semafori quasi quanto gli spazi vuoti. Attraversare la strada per incrociare gli sguardi dei pedoni. Li guardo negli occhi e vorrei che facessero lo stesso, anche quando mi accorgo che li sto infastidendo. Quando mi passa accanto qualcuno che mi piace, a volte chiudo gli occhi per sentirne l’odore. Altre li tengo aperti, per godermi fino in fondo la scena. Le cose che preferisco: capelli lunghi che ondeggiano e profumo di sapone, e gli handicappati a braccetto con un genitore.



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Quando ho iniziato a non stare bene, cercavo un motivo anche nei mobili a parete. Ho cambiato materasso, sedia, perfino scrivania. Come se la depressione fosse una questione di posizione.



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Faccio colloqui di lavoro di continuo, anche quando non ne avrei bisogno. Lo faccio per tenermi in allenamento, oppure solo per il gusto di dire no. Con il lavoro ho un rapporto di questo tipo: oggi vado, parlo con il capo, e gli dico che mi licenzio, che il mio tempo lì è finito. Se mi dice di sì, cambio idea e non lo faccio. Se mi chiede di restare, insisto per andare fino a quando non lo convinco. Poi cambio idea e resto.



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Ho sognato di fare l’amore con la sorella di mia moglie. Si somigliavano molto, lei aveva i capelli più lunghi ed era un po’ più alta. Mia moglie non ha sorelle nel mondo reale, ma non è importante; nei sogni succedono altre cose, è normale. Continuo a chiedermi se sia immorale sognare.

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