L’architettura liberata? Qualche anno fa, durante la mostra The act of building al CIIVA di Bruxelles (il cui senso potremmo pretenziosamente semplificare con una domanda: è possibile una architettura pop che ricavi i materiali dal terreno in cui si innesta e che applichi una tecnologia essenziale?), curiosando tra i libri che avevano animato la struttura concettuale dell’expo, ne aprii uno dal titolo Architecure without architects di Bernard Rudofsky.
Mentre sfogliavo quello che pensavo fosse un testo - e che in realtà è una raccolta quasi muta di immagini fotografiche - mi ci sono ritrovato dentro. Tra le tante architetture spontanee e non programmate raccolte, c’era anche la mia città natale: Pisticci.
Architecutre without architects è un corpus enorme di architetture non regolamentate che conservano una bellezza sgraziata, imperfetta ma comunitaria. Si tratta di architetture rurali, vernacolari e non pianificate che conservano un senso identitario preciso, pur essendo aggregati di nuclei diversi fra loro, che si auto-applicano regole costruttive basate su un sentire comune tecnologico, materiale, materico e funzionale.
Ho iniziato, pertanto, a interessarmi a questo architetto: Bernard Rudofsky, uomo per cui è impossibile usare la parola visionario. Parliamo di uno strano lupo accademico dall’atteggiamento montaliano: a lui bastava l’odore dei limoni, che nella fattispecie, assumono sembianze di foreste e selve di architetture inesplorate, povere e autocostruite: case, casette, villaggi, scritture e riscritture di aggregazioni abitative semplici e non i nomi grossi e i sapori delle piante dai nomi poco usati, per i poeti laureati (l’international style moderno o post-moderno per semplificare).
Per lasciarsi affascinare da Rudofsky, basterebbe leggere le sue piante e i suoi disegni progettuali: ogni ambiente diventa il racconto della funzione e un momento sociale della giornata. Compaiono in questo universo poetico, come in un piccolo teatro, personaggi, costumi animali e piante che vivono e animano gli ambienti di progetto. L’architettura serve l’uomo e all’uomo serve l’architettura. Questa relazione umanizza le cose e le cose umanizzate riecheggiano, all’interno del sistema abitativo, nell’abitante.
L’impostazione di Rudofsky rompe i vetri di una teca che conserva l’idea e l’immagine di una architettura pura, elitaria, lucente e a volte prepotente. L’opera più famosa di Rudofsky, in collaborazione con Luigi Cosenza, è senza dubbio a Villa Oro a Napoli. In essa confluiscono, come in un mix potente ma equilibrato, tutti gli elementi della tradizione mediterranea semplice e forse involontaria, l’architettura isolana e il suo mito, la gestione sapiente del dislivello e il rapporto dialettico interno-esterno.
Il mito del mediterraneo, l’abitare rurale (quasi clandestino a volte) quelle case bianche accese dal sole, i lori assetti, le loro storture narrative, i dettagli stravaganti e un’idea di città rovesciata, intricata, grazie a Rudofsky, acquisiscono più forza e dignità scientifica nella cultura dell’epoca
Guardare oggi con dolcezza a quei sistemi abitativi nei dirupi, nelle rocce, così onestamente funzionali così democratici così dignitosamente pop, fa pensare e sperare a un’architettura liberata, che riscopre le sue ossature più nascoste e che propone molte domande esistenziali, una fra tutte:
è possibile che l’intero territorio del mondo sia lo stesso spazio tecnologico per tutti e in tutti i luoghi?
* Le immagini sono del Rione Dirupo a Pisticci e di Villa Oro a Napoli
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