Con Un cielo per le cose, l’autore argentino Daniel Calabrese ci consegna un’importante retrospettiva della sua poesia: il libro è pubblicato da La Vita Felice, tradotto da Emilio Coco e presentato da Jorge Boccanera. I versi di questo autore, come scrive Boccanera, tendono a naturalizzare gli elementi dissonanti, a creare un vero e proprio legame fra materia ed emotività: «Molti camminiamo sull’acqua senza sforzo / quando chiudiamo gli occhi. / Pochi si azzardano a rimuovere / un vetro conficcato nel petto. / Nessuno ha dedicato tanto lavoro / a disarmare una tristezza».
Per Calabrese l’amore per la parola è pratica costante, agisce su ogni cosa, su ogni verso. Le parole che formano queste poesie sono tratte dal tempo, dalla coincidenza di ogni cosa con il corpo e con lo sguardo. La lettura di questi versi spingono verso quel Sud costante che c’è in ogni luogo, un punto cardinale in costante evoluzione verso la ricerca di una regione lontana e allo stesso tempo vicina a noi. La bussola che spinge Calabrese è semplice, elemento centrale di questa poetica è l’occhio, lo sguardo concentrato in ogni aspetto: «I fiumi secchi continuano a portare l’acqua. / Nessuno si spiega come mai gli alberi / tagliati e bruciati / diano ancora frutti e semi / a quegli uccelli che si sono già estinti. / Una volta feci parte di una specie / che nuota, vola e cammina. / Ora non più. / So che morirò e dopo / non ti troverò / per colpa di questa maledetta cecità».
Motivi indiscutibili delle poesie di Calabrese sono i confini fra concreto e astratto, fra vita reale e vita letteraria, questi labili territori rispondono alla volontà duplice dell’autore di immergersi nei segreti che muovono il mondo, nei suoi piccoli dettagli monotoni e unici: «Continuiamo a viaggiare per quei sentieri / che solo si possono percorrere con sospetto. / Sfioriamo le spine, le ragnatele, / le pietre infuocate, le bave del diavolo. / E anche se abbiamo voglia di dormire / perché il sole ci perfora le teste / e i sogni scappano via, / andiamo avanti. / Tutto ciò che succede / succede tra noi, / come il caldo, come i suoni».
Tema ricorrente il fiume, che scorre, che porta l’intensità dell’acqua ad essere mutamento, funzione purificatrice. In più di una poesia il fiume ci fa percorrere un sentiero vivo, una storia che, attraverso la conoscenza, attraverso la preoccupazione, vive fra i luoghi, addirittura fra le parole: «Ascoltai il suono di alcune parole / ritagliate nell’ombra. / Il sangue che abbandona il paradiso / prende la forma di questo fiume che parla».
Il racconto della vita in generale non si compie: difficile dire, ancora più difficile creare. In questo la poesia fa da calamita per ogni cosa, assorbe tutto il possibile che si riesce a vivere. Ancora, Calabrese vive la poesia come un dono, un richiamo naturale. La natura dei suoi versi è una ricerca di forme da codificare, da chiarire con una nuova precisione: «Fu in una di quelle ore di lucidità, / quando la mente coincide con il corpo in tempo reale, / quello che molti rappresentarono / con una luce, con una sfera regolare / sopra un volto innocente, / o l’impegno degli astri / dietro un profilo congelato. / L’uccello stava immobile, / inchiodato su un palo al margine / della strada».
Sono queste le vite descritte dall’autore, che si tratti di sé o di un qualsiasi altro “personaggio” la concentrazione non svanisce mai, non si percepisce mai un tono minore all’interno di questi testi, un esempio lampante si trova nella poesia L’orologiaio, dove il racconto si trasforma in qualcosa che si avvicina al desiderio: «Lo aspettammo nel giardino / dove aveva il suo famoso orologio solare, / e ci mettemmo a pensare / a ciò che fummo, a ciò che saremo, / quando i numeri e la luce / si equilibreranno delicatamente».
Richiamare a sé le forme non è per nulla facile, ancora di più per il poeta, che vorrebbe limitare gli spazi e concentrare tutto su una pagina. La poesia può e deve essere sempre espressione di qualcosa. Deve essere ricerca, costante e combattuta. Per questo, Calabrese è un demolitore. Calabrese punta alla logica, ad una scrittura ricercata ma finemente efficace che non si riduca mai a semplice ripetizione di dati e fatti. Calabrese è un demolitore perché vuole spiegare e riportare la vita alla pagina scritta, al nesso che per essere costruito prima deve essere distrutto: «Ascoltate. Ascoltate bene, / perché se fate attenzione / udirete quelle grida sempre più deboli. / Resta solo una tazza, un bicchiere, due o tre piatti. / Ieri è caduta un’altra mensola con le vibrazioni. / La delicata distruzione sta passando / proprio adesso, / per questo luogo preciso».
Luca Minola
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