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Eternità / Un racconto di Luca Trifilio


La prima fu Radita, la donna delle pulizie.

Sabato era il giorno delle faccende domestiche. Raffaele cambiava le lenzuola, avviava la lavatrice, riordinava gli armadi. Si dedicava a quelle incombenze col rigore di chi è stato cresciuto con regole severe, e con una punta di pigrizia che di sicuro non aveva ereditato dai suoi. Andava a fare la spesa alle tredici precise, quando il supermercato era quasi deserto. Consumava un pranzo leggero in attesa di Radita, che arrivava sempre puntuale alle quindici. Per la prima volta in oltre un anno quel sabato non si presentò; non rispose nemmeno alle due telefonate di Raffaele.

Poi Nadia, la receptionist della palestra.

Lunedì, mercoledì e venerdì: Raffaele dedicava all’allenamento tre sere a settimana. Prima di andare a cambiarsi, si fermava a scambiare due parole con la ragazza della reception. Sapeva benissimo che lei gli dava retta solo per educazione e per il ruolo che ricopriva; nonostante ciò, a Raffaele piaceva viverlo come un vero e proprio flirt. Le faceva sempre la stessa domanda («Allora, stanca oggi?»); dopodiché poggiava il gomito sul bancone e la guardava negli occhi, ascoltandola con interesse sicuramente più autentico degli altri tipi che le ronzavano intorno, tutti quei Ronnie, e i Bestione, e gli Spalla-a-Palla-di-Cannone che infestavano la sala. Quel lunedì (dorso e bicipiti) Nadia non era dietro il banco a sorridere a chi le passava davanti. Al suo posto c’era uno degli istruttori di sala, un ragazzino imberbe che avrebbe faticato a farsi servire un moscow mule ai Navigli.

«Nadia è in ferie?» domandò Raffaelecon voce incolore, come se la cosa non gli interessasse e fosse solo una scusa educata per scambiare quattro chiacchiere.

Il ragazzino replicò con un’alzata di spalle: «No, non è venuta.» Dal tono Raffaele capì che la conversazione era finita.

La serata del martedì era libera. La dedicava alla tv oppure al cinema, dove andava un paio di volte al mese. Per fare piacere agli amici, spesso era costretto a guardare film d’azione che lo annoiavano terribilmente. Quand’era solo, però, sceglieva scavando tra forum internazionali, recensioni online e segnalazioni di premi cinematografici. Quella sera guardò un film greco che parlava di una società in cui era obbligatorio vivere in coppia. Si compiacque di non farne parte.

Nemmeno il mercoledì, la sera di spalle e gambe, vide Nadia alla reception.

Il terzo era stato Giulio.

Era il giorno dell’aperitivo, giovedì. Raffaele, Giulio e Michele si vedevano sempre allo stesso bar per bere qualcosa, origliare le conversazioni futili della gente e lamentarsi del lavoro. Quel giovedì Giulio non si era presentato in ufficio. Non aveva avvisato nessuno della sua assenza, e neppure aveva risposto ai messaggi in cui gli chiedevano che fine avesse fatto. Qualche goccia di pioggia e un fresco insolito per la fine di maggio convinsero Raffaele a rientrare direttamente a casa, saltando l’aperitivo.

La mattina dopo si svegliò alle sette e trenta, come sempre. Una rapida doccia, un’occhiata al cielo per decidere come vestirsi, un caffè in piedi e fu pronto per uscire di casa.

Il bus era fermo al capolinea, con le porte aperte.

A bordo non c’era nessuno. Neanche l’autista.

Sedette in prima fila, come ogni volta che ci trovava un posto libero; stavolta poté sceglierselo. Infilò gli auricolari e selezionò un album indie. Reclinò la testa contro il vetro e chiuse gli occhi dietro gli occhiali da sole. La prima canzone finì, passò la seconda, iniziò la terza. L’autista non arrivava. Raffaele si guardò intorno: la pensilina era deserta. Dall’altro lato della strada c’era un unico bar, dove qualche volta si fermava a fare colazione, ma non c’erano i soliti tavolini all’esterno e la porta era chiusa. Erano quasi le nove e la strada non si era ancora svegliata.

C’era forse uno sciopero di cui non sapeva nulla? Era successo qualcosa e tutti si erano barricati in casa, oppure erano scappati? Possibile che non si fosse accorto di niente, proprio lui che aveva il sonno così leggero da essere infastidito dallo scoccare delle ore sulla sveglia di quand’era bambino, coi galletti metallici che si piegavano e battevano sul quadrante?

Frugò nella tasca dei pantaloni di lino e tirò fuori il cellulare. Aprì un paio di siti di quotidiani nazionali: politica, cronaca, sport, la morte di un famoso suonatore di oboe di cui non aveva mai sentito parlare. Gli aggregatori di notizie locali riportavano un paio di incidenti mortali, l’eroico salvataggio di un’anziana da parte di un extracomunitario, le polemiche sull’inaugurazione di un centro commerciale nato al posto di un parco. Nessuna notizia fresca che chiarisse, anche indirettamente, il perché dell’assenza di barista e conducente.

Raffaele lasciò il suo posto e scese: solo allora si accorse del silenzio. Dal momento del risveglio non aveva sentito alcun rumore. Nemmeno i più piccoli, i più banali rumori di ogni mattina. Nessun suono oltre a quelli prodotti da lui: l’acqua che scorreva mentre si lavava il viso, le scarpe che gracchiavano a ogni passo sulle piastrelle, lo sferragliare del mazzo di chiavi quando aveva chiuso la porta. Non un accenno di raucedine dal vecchietto che tossiva ripetutamente alle otto in punto al di là del muro della cucina o l’avvisaglia di un capriccio dai quattro bambini dei dirimpettai, che in attesa dell’ascensore strepitavano e strillavano sempre come indemoniati.

Niente.

Chiamò il padre. Il telefono squillò una, due, cinque, otto volte. Nessuno rispose, d’altronde era insolito che lo chiamasse a quell’ora. Poteva essere alle poste, in giardino, in bagno. Poteva aver dimenticato il telefono da qualche parte. Chiamò Rebecca, sua sorella. Il fatto che avesse avuto da poco una bimba gli fornì un ottimo pretesto per giustificare la mancata risposta.

Controllò l’app dei mezzi pubblici: le tabelle orarie erano quelle di sempre, ma la casellina in cui venivano indicati i minuti che mancavano all’arrivo o alla partenza di autobus e tram era vuota. Raffaele pensò che avrebbe fatto tardi al lavoro. Stabilì la sequenza di passi da compiere: mandare una mail al responsabile per avvisarlo; noleggiare una bici, sperando di trovarne una libera non troppo distante; pedalare per i cinque chilometri e settecento metri che lo separavano dall’ufficio.

Individuò una bici disponibile in una traversa, la sbloccò e attraversò viale Fermi, via Farini, Porta Garibaldi. Le auto erano poche, il che rese il suo viaggio ancora più spedito. Erano, però, anche ferme e vuote; qualcuna aveva le portiere aperte. La musica lo accompagnò mentre osservava incuriosito e assente il mondo che, in apparenza, quel giorno stava faticando a riacquisire un senso dopo il buio della notte.

Parcheggiò la bici sul marciapiede di fronte all’edificio di vetro che ospitava la società per cui lavorava e altre tre o quattro aziende delle quali conosceva soltanto il nome. La porta automatica si aprì ed entrò nella reception gelida. Al banco non c’era il ragazzo col pizzetto che da tre anni a quella parte gli dava il buongiorno quasi ogni mattina. Raffaele si aggrappò con forza a quel quasi, mentre in ascensore pigiava il tre. Il suono emesso al passaggio da ogni piano diventò un conto alla rovescia per il momento in cui le porte si sarebbero aperte e Lidia gli avrebbe chiesto “Oh, Raffaele, come mai sei così sudato? Sicuro di stare bene?”, e lui, ancora un po’ affannato, le avrebbe raccontato che aveva fatto un sogno strano e poi aveva preso la bici perché l’autista doveva essersi sentito male e “Sai, Lidia, è lunga da casa mia a qui, però va tutto bene, credimi, sono contento di vederti, vado al mio posto, mi aspetteranno per la colazione e ho una fame… anche il bar era chiuso”.

Che strano.

Le porte si aprirono, Raffaele fece due passi in avanti: Lidia non c’era. Al di là del vetro poteva vedere i primi due tavoli dell’open space, vuoti. Entrò per controllare, ma il silenzio anticipò quello che avrebbe visto: non c’era nessuno. Andò al suo posto e avviò il pc. Sarebbe stato bello avere l’ufficio tutto per sé. Prima di tutto, si stava più freschi che a casa (se solo mi decidessi a mettere i condizionatori…), poi la connessione a internet era più veloce e aveva pure il distributore gratuito di caffè. Si convinse che non sarebbe stata affatto una cattiva giornata, dopotutto. Per qualche minuto ne fu così sicuro da riuscire a mettere da parte ogni altro pensiero. Poi confrontò gli orari di aggiornamento dei principali siti di notizie e dei social network. In quel momento, Raffaele concluse che non c’era nessun enigma da risolvere: semplicemente, stava sognando. Non poteva essere sveglio. Era impossibile che l’orario a cui risalivano gli ultimi post delle fitness model che seguiva su Instagram e dei suoi amici su Facebook e l’aggiornamento più recente delle pagine dei quotidiani online coincidessero con tale precisione: l’una e trentadue minuti. Circa otto ore prima. Più o meno l’ora in cui era andato a dormire, forse addirittura l’esatto momento in cui si era addormentato. Già, doveva aver chiuso gli occhi proprio all’una e trentadue. E, in quel preciso istante, tutto si era fermato: come se il mondo dipendesse, per quel giorno, per quella notte, dal suo controllo. Come se l’assenza di Raffaele e il suo stato di incoscienza durante il sonno avessero inceppato un meccanismo. Un minuscolo ingranaggio saltato e boom, la macchina è in panne, chiamate qualcuno che sappia ripararla, per favore.

Chiamate qualcuno in grado di mettere le cose a posto, vi prego.


25 maggio – 21:54

Ciao papà, come stai? Non mi hai risposto nemmeno stasera. Qui è successo qualcosa oggi… strade vuote, macchine abbandonate, ufficio deserto. Boh. Anche su internet tutto tace, e in tv vedo le pubblicità, i film, ma non i programmi in diretta. Volevo guardare la Juve in coppa, ma non la danno. Non trovo nemmeno il risultato in tempo reale sulla Gazzetta. Chiamami quando leggi. Notte.


26 maggio – 12:07

Ciao papà, come sempre di sabato mi sveglio tardi. Ho chiamato la mamma e Rebecca, niente. Ancora non ho notizie di cosa sia successo. Dei miei amici non mi risponde nessuno. Penso che andrò a fare un giro in città. Ci sentiamo più tardi.


27 maggio – 00:31

Ehi, tutto ok a casa? Papà sta bene? È successo qualcosa?


27 maggio – 09:15

Pa’, ieri sono stato tutto il giorno fuori. Milano è abbandonata. Non ho incontrato nessuno. Nessuno. Sono stato in centro, e tu sai quanta gente c’è il sabato in Vittorio Emanuele, in Duomo, e poi alle Colonne e in Darsena. Deserto. Sembra non esistere più traccia dell’umanità. Perché solo io non so cos’è successo? Immagino siano tutti al riparo da qualcosa. Tutti tranne me. Perché non mi rispondi?


27 maggio – 14:48

Ciao sorellina, mi rispondi appena puoi? Per favore…


27 maggio – 14:49

Ma dove siete finiti? Dove sono finiti tutti? Vi raggiungo, se mi dite dove siete andati.


27 maggio – 14:56

Pa’ se entro domani non vi sento e continuo a non sapere niente, prenderò una macchina e scenderò a casa.


28 maggio – 02:28

Sono stato al Cimitero Monumentale, pa’. Ci sono passato per caso, credo, comunque i cancelli erano aperti. Ho lasciato la bici (starò spendendo un patrimonio in noleggio, ma vabbè) e l’ho visitato da cima a fondo. Mi sono fermato anche oltre il tramonto, perché lo volevo vedere al buio, dall’interno. Lo abbiamo visto da fuori tante volte, e tu mi dicevi che era bello, ma anche pauroso. Da dentro non lo è, sai? È… accogliente. Ecco, sì, è accogliente. Avevo un panino nello zaino e una lattina di birra calda da far schifo. Ho mangiato seduto sul gradino davanti alla scultura dell’ultima cena. L’illuminazione notturna rende il cimitero affascinante: mi sentivo in uno di quegli horror in bianco e nero degli anni Sessanta, quelli che ti piacciono tanto. Pensavo che da un momento all’altro sarebbe saltato fuori Christopher Lee per assalirmi. Ma ho pensato che, se fosse successo, sarebbe arrivato Peter Cushing a salvarmi. O almeno, così mi dicevi tu, quand’ero piccolo: per ogni cattivo che vorrà farti del male, ci sarà qualcuno che cercherà di proteggerti. Ovviamente non c’era nessuno. Ho fatto tardissimo, penso che domani non andrò in ufficio, tanto… Forse scendo, sono in pensiero per voi. Notte pa’.


28 maggio – 15:04

Non c’è modo di muoversi da qui. Treni e voli non ce ne sono, è tutto fermo. Allora ho preso una macchina. Ma perché sono tutte aperte? Dio mio, mi sono sentito un ladro. Ho fatto il pieno e sono partito. Nelle strade, in città, ci sono un po’ di auto ferme, ma nulla di paragonabile a quello che ho trovato al casello dell’autostrada. Un oceano di macchine, camion, tir, furgoni; sterminato, fin dove potevo vedere. Non c’era nemmeno uno spiraglio. Ho provato con la tangenziale nord e la ovest, ma nulla. Allora ho provato a uscire da sud, ma anche lì non è stato possibile. Alla fine sono tornato a casa. Penso che ora riproverò a chiamarti, così te lo racconto a voce. Poi forse vado a fare un giro, voglio visitare la chiesa di San Bernardino alle Ossa, oppure la Pinacoteca di Brera: sarà bello farlo senza nessuno intorno.

29 maggio – 11:42

Pa’, ti scrivo su Facebook perché non ho più il telefono. Ho perso tutti i numeri e non ne ricordo nessuno a memoria. Non uscirò più. Stavo andando in ufficio, stamattina, perché volevo vedere se nel frattempo fosse tornato qualcuno. Ho sentito abbaiare. Erano cinque o sei cani, e hanno iniziato a seguirmi. Ho pedalato come un pazzo per seminarli. Ci sono riuscito ma mi sono ritrovato in strade che non conoscevo. Ho preso il telefono e mentre impostavo il navigatore ho sentito un sibilo. Un serpente si era infilato tra i raggi della ruota posteriore. Ho cacciato un urlo. Tu sai quanta paura mi fanno i serpenti, lo sai. Gli ho lanciato il telefono contro ma l’ho mancato. Ho iniziato a pedalare. Il serpente è rimasto incastrato tra i raggi e quando la ruota girava lo trasportava con sé in una specie di giostra della morte. Sbatteva di continuo sull’asfalto e sull’intelaiatura della bici e a me sembrava di impazzire. Avevo la gola serrata e più pedalavo più sentivo quel rumore, fino a quando non ce l’ho fatta più e ho mollato la bici. Ho iniziato a correre. Mi uscivano le lacrime dagli occhi tanto andavo veloce. Ho trovato una nuova bici e sono tornato a casa, senza voltarmi. Non mi muovo più da qui.


29 maggio – 23:10

È comparsa una luce da qualche parte. È una lama sottile, verticale, sale tra i palazzi, punta il cielo. Mi ha ricordato il fascio di luce del Fortaleza, la vecchia discoteca che apriva d’estate e io ci potevo andare solo di sabato, anche ad agosto, ti ricordi? Non è molto intensa, ma c’è, non me la sto inventando! Mi sembra di sentirla pulsare, come se fosse viva. Non c’è mai stata prima, di questo sono sicuro. Vorrei andare a vedere, ma dopo quello che è successo oggi… non so se me la sento. Anzi, non me la sento e basta. Vorrei che ci fosse qui Rebecca: mi direbbe che va tutto bene e che la luce è un segnale positivo, magari lo stanno mandando gli altri per radunarci, per far capire a chi è rimasto qual è il posto dove andare, lì dove le cose funzionano ancora. E dove il mondo non si è fermato. Vorrei andare a vedere, non sai quanto, ma non ce la faccio. Se stamattina ho visto i cani (o lupi, chissà) inseguirmi, e un serpente nella ruota… Dio, se penso a quanto era vicino alle mie gambe… cosa potrei incontrare adesso, nelle strade deserte? E fino a quando funzionerà la corrente elettrica? Cosa succederà quando non ci sarà più? Dove sei, papà?


31 maggio – 03:30

Sto pubblicando frasi e foto sui social network: chissà che qualcuno non risponda. Non sono più uscito di casa. E c’è ancora la luce. Mi sembra più intensa, ora, sai? O forse è il buio che aumenta. Tutte quelle finestre sbarrate, le tapparelle abbassate, le case vuote e le luci spente non le sopporto. La luce proiettata nel cielo è l’unica compagnia che ho, adesso. Chissà dove sono gli altri. Sono soli come me? Siamo diventati tutti incapace di vedere le altre persone, ma continuiamo a esistere? Forse è una punizione, che dici, papà? Sto riflettendo sul fatto che forse ho delle colpe, magari sono il responsabile di tutto. Tu non me lo hai mai detto, ma so che non è solo la mamma a pensare che io dia al mondo un’immagine di me fasulla. Lo so che Rebecca pensa io sia un codardo. Ma la verità è che io non so cosa sono, papà. Non lo so ancora. Vorrei un po’ di tempo in più per capirlo, e sai, ho pensato addirittura che questi giorni di solitudine mi sarebbero serviti. E invece no, mi sto perdendo e non so più nulla, se non che il mondo mi ha voltato le spalle. Forse mi sta ripagando con la stessa moneta. Può essere, secondo te? Dopo anni in cui mi sono nascosto da ogni cosa, ora è proprio lui, anzi, ora sono tutti a nascondersi da me. Dove si trova il pulsante per ricominciare daccapo? Sarà quella la sorgente della luce?


1° giugno – 01:18

Pa’, mamma, Becca. Ci ho scritto sempre troppo poco, in questo gruppo. Lo faccio stasera per dirvi che sto uscendo. La luce è diventata enorme, il tronco di una sequoia. Da qualche minuto ha iniziato a pulsare e – so che non mi crederete, lo so – sento che mi sta chiamando. In quelle pulsazioni sento chiaramente il mio nome. E se potessi, finalmente, rendermi utile a qualcosa? Se ripartire dipendesse anche da me? Non posso tirarmi indietro. Non ora. Non più.


Impugnava il manico di una scopa, quando uscì di casa. Non era sicuro che gli sarebbe davvero servito, ma stringerlo tra le mani gli donava l’illusione di avere il controllo della situazione, in qualche modo. La luce sembrava vicina: qualche centinaio di metri, forse un chilometro. Percorse per un tratto un’arteria principale, cristallizzata all’una e trentadue come tutto il mondo di Raffaele, poi si infilò in una strada secondaria. I lampioni ronzavano e nemmeno un moscerino si agitava nei coni giallastri che raggiungevano a stento l’asfalto. La luce, oh, quella luce invece era intensissima, l’unica cosa viva in una città morta. Passo dopo passo, ogni lampione, ogni insegna al neon, rossa e bianca e verde e nera, ogni barlume di civiltà si spense nella notte.

Camminò per una ventina di minuti, perdendo l’orientamento, tornando indietro per cercare di individuare la direzione, sobbalzando a ogni parvenza di rumore o di movimento. All’incrocio tra due strade Raffaele si ritrovò di fronte alla colonna di luce che gli era parsa così immane e potente: davanti ai suoi occhi si ridusse a una lama sottile, fino a dissolversi. L’accesso alla metropolitana, spalancato come una bocca gigantesca e squadrata, lo invitò a proseguire.

Scese e non c’era nessuno. Superò i tornelli. Un treno era fermo, le porte aperte. Salì a bordo e la metropolitana partì, ma non fece nessuna delle fermate previste. Le stazioni erano buie. Raffaele si chiese dove lo avrebbe lasciato scendere quel treno senza conducente, senza supervisori, senza bambini meravigliati in prima fila a fingersi alla guida del serpente di metallo.

Il convoglio si arrestò al capolinea di San Siro. Raffaele ci era andato un paio di volte per accompagnare qualche amico, però mancava da anni. Le porte si aprirono. Gli sembrò di sentire qualcosa: un brontolio sommesso, una specie di indistinto tremore della terra. Poi un boato. Iniziò a correre. Erano tutti lì, allora! Si erano radunati allo stadio, forse avevano allestito un campo di soccorso. Avrebbe trovato tende, ambulatori di fortuna, piatti caldi, sacchi a pelo. Persone. Altre persone pronte ad accoglierlo, a dirgli che poteva rimanere con loro, che era al sicuro. Avrebbe scritto ai suoi, e non perdete la speranza, avrebbe detto, c’è chi si prenderà cura di voi, così come hanno fatto con me. E avrebbe concluso con Vi voglio bene, perché anche se lo imbarazzava, anche se non lo aveva mai detto, sentiva che ora era giusto. Era quello che andava fatto.

Udiva già cori, canzoni, risate, fischi, urla di gioia o di delusione. Aveva sempre avuto la sensazione che rimanere fuori dallo stadio durante una partita di calcio fosse come osservare la vita senza viverla. Lo assalì una tristezza cupa quando vide che il buio della notte di giugno era ancora fitto e denso, e che lo stadio era solo un’enorme sagoma, nero su nero. Forme indefinite su sfondo infinito.

Alzò gli occhi e vide le stelle. Così vivide e luminose le aveva viste solo in montagna, in qualche notte fortunata. Fece un respiro profondo, come se volesse avvicinarle alla terra per farla tornare a vivere.

Sono io la causa di tutto questo?, chiese disperato al cielo.

Le osservò fino a quando il collo non gli fece male: continuarono a splendere, lontanissime, senza rispondergli.

Peter Cushing non verrà a salvarmi, pensò.

Quando risalì a bordo, il treno partì. Andava dalla parte sbagliata; proseguì oltre il capolinea, verso un punto dello spazio che, sulla mappa della metropolitana, non era segnato.


* Luca Trifilio, autore anche dell’immagine digitale, è nato a Diamante, in provincia di Cosenza, nel 1984 ma vive a Milano, dove lavora come software architect. Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste come Risme, Nazione Indiana, Cadillac, la nuova carne e Rivista Blam, come nella raccolta Cronache dalla quarantena(Nutrimenti). Il suo primo romanzo è in attesa di pubblicazione.

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