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Il Cairo / Un racconto di Francesco Stolfi


Nel settembre del ‘99 ritornai in Egitto. Dal grigio ardesia di Milano al soffio d’oriente sul collo. Atterrai che il sole calava sull’orizzonte lilla, la sabbia cazzeggiava nell’aria e rotture di scatole per i soliti controlli. Per un attimo sentii il sottile piacere della provvisorietà.

Fuori dall’aeroporto mi guardai intorno e accesi una HB. Alcuni ragazzini volevano vendermi cianfrusaglie, erano la Napoli di Giza. Chissà che pensavano degli europei? La confusione di certi posti mi rilassa però. Uno zainetto Invicta a tracolla e Persol scuri, un fesso qualunque in un posto pieno di storia.

Jamal, il mio aiutante in quei giorni, mi aspettava alla fermata dei taxi con un bel sorriso e un vestito occidentale di lino color panna. Era orgoglioso del suo italiano, del suo lavoro e della sua auto, una Peugeot bordeaux col cambio al volante piena di ciondoli e fronzoli. Ignoravo e ignoro il modello di quella Peugeot. Mise su Ofra Haza e mi chiese del viaggio, del soggiorno, accennò alcuni dettagli della partenza verso il Sud. Schizzammo via in Peugeot con l’odore di incensi e datteri sotto la luna cristallo del Dio Thot.

Sarei stato due giorni al Cairo per poi ripartire verso Shalatin, dove avrei proseguito per Khartum, la capitale del Sudan e stop. Appena entrato nella hall del Conrad capii l’aria che tirava: Versace, Hermès, Cleopatre varie eccetera, via in camera. Sul comodino cinquanta dollari in fiches, omaggio della ditta, e un asciugamano sul letto intrecciato in forma di levriero - piuttosto inquietante.

Doccia, un po’ di TV. Scesi verso le dieci già in fase Off. Cena semi occidentale: riso freddo, carne di montone, insalate; al buffet c’era kunafa, baklava e altro ancora. I dolci egiziani sono uno spettacolo. Vino Omar a bomba, tutto magnifico. C’erano diversi occidentali al ristorante, turisti rumorosi e scassacazzi come sempre. Un cenno, un saluto paisà, ma vaffanculo. Comprai le sigarette in hotel e entrai nel casinò.

Vinsi qualche dollaro al poker caraibico, che mi sputtanai in cazzate il giorno dopo, e mi scolai una mezza abbondante di Talisker annacquato. Quel figlio di mandarino del barista aggiungeva acqua nelle bottiglie per farci la cresta. Lo stronzone avrebbe perso il posto di lavoro se solo un cliente avesse reclamato. Ci litigai. Mi offrì un paio di drink e un sigaro cubano di gran marca. Aveva paura, era chiaro, finì tutto lì. Un siciliano bestemmiava come un vaccaro per via di qualche migliaia di lire egiziane perse alla roulette. Ragazze asiatiche benestanti scolavano torbati e litigavano in inglese, vestivano Made in Italy e fumavano Camel a catena, come dire, parecchio rock. La mattina seguente mi svegliai alle prime luci. Dal terrazzo della mia stanza il Nilo scorreva eterno, mentre il giorno rosa prendeva forma nella terra di Tutankhamon. In pigiama a strisce ascoltavo il silenzio interrotto dalla prima preghiera diffusa nella città tramite megafoni. Chi è stato in quella zona sa quanto sia delizioso. Quel canto religioso ricorda il deserto, beduini e minareti. La giornata la passai in giro per le vie del centro. La sera uscii con Jamal e una sua amica di nome Atifa: bellissima e stronzissima. Aveva gli occhi truccati come Cleopatra e un abito di lino verde acqua, un vero incanto. Ma lo sguardo era sfuggente, quindi zero flirt. Andammo a fare un giro al mercatone della città vecchia. È pieno di gioiellerie, cibo ovunque, bazar e profumi di spezie. Poi entrammo in un negozio di tappeti dove contrattai fino allo sfinimento per un bel pezzo persiano blu cobalto tipo i quadri di Chagall. Lo ottenni dopo un’ora di tira e molla e the a ripetizione offerti dal padrone del negozio. Odio il the e quello insisteva. Ma non sapevo bene come portarlo via quel benedetto tappeto, così lo regalai ad Atifa che mi ringraziò a fatica. Le vie erano così calde che mancava il fiato. Partimmo l’indomani con la Peugeot bordeaux, per Shalatin, all’estremo sud dell’Egitto, con una fermata intermedia a Quseir, un posto per turisti euforici. Shalatin è l’ultima città egiziana, insomma, al confine col Sudan. Dove c’è il mercato di dromedari da macello più importante del Nord Africa. Lì non ci sono turisti, lungo le strade vicine al Mar Rosso solo un caldo feroce e le acacie, con il deserto per morire, che poi qualcuno trova poesia ovunque, forse anche all’inferno. I dromedari da macello arrivano stipati in vecchi camion, legati ad una zampa per evitare che scappino, venduti a peso, il peso viene calcolato ad occhio dai macellai, i gazaar. Le trattative con i beduini sono infinite e si raggiunge un accordo solo dopo ore. Ma questa è un’altra storia.

Ahlan wa sahlan.



* Francesco Stolfi, lucano, è laureato in farmacia e svolge la propria professione a Napoli. Viaggiatore da sempre, nei suoi racconti intreccia l’esperienza con elementi personali anche stilistici. Dopo aver pubblicato racconti su diverse riviste, e anche su «Doppia esposizione» la scorsa estate, sta per uscire il suo primo romanzo, stanno finendo le sigarette.

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