Edoardo Piazza è nato a Roma nel 1986, dove ha studiato Scienze Politiche alla Sapienza. Si è occupato di associazionismo socioculturale, con progetti nelle carceri e nelle università. Sue poesie sono uscite su riviste come «Nuovi Argomenti». È stato finalista al Premio Giovanni Bertacchi ed è presente in un’antologia di racconti dell’editore Giulio Perrone. Nel 2019 è uscita per Ensemble la raccolta Container. I versi che proponiamo provengono da un poema inedito intitolato Il fosso.
Nella nostra società
dove
è essenziale essere innocui
e si allargano le gambe ma non i cuori,
qualcuno è andato oltre,
oltre il fosso.
Tutto sta in effetti nell’entrarci…
… per non essere nell’inutile culla progettata apposta per te
dal sistema,
al fine neanche troppo celato di renderti inutile,
e lo spot reciterebbe, qualora ci fosse:
Per tutta la vita, dalla pappa alla bara!
Nel fosso i denti,
le piume,
i coccodrilli.
I coccodrilli senza denti,
i coccodrilli senza piume.
Lische di pesce / i cardellini
(magari avessi visto cardellini...).
Nel fosso le serate sulla via,
visioni di fachiri e mangiafuochi
sulla concretezza di sampietrini grigi,
ampi spazi,
noi a pisciare di nascosto sulle siepi,
perché pisciare all’aperto è grave assai assai.
(...)
Nel fosso qualcuno ci rimboccava le coperte,
ci sbarbava,
erano per lo più mani femminili,
dita setose,
e note strade,
come sciarpe di cashmere
ci avvolgevano.
Le nostre auto vegliavano quelle strade,
i vigilanti si rilassavano vedendoci:
eravamo più sicuri di loro,
della loro security,
perché liberi e responsabili.
Gli odori impregnavano i nostri abiti,
i maglioni sapevano di cicche e profumi altrui,
i cappotti odoravano delle bevande cadutegli accidentalmente sopra,
l’interno dei colletti portava il sapore di ciascuno,
specie sul retro,
di ciascuno inteso come il proprietario.
Odorare il proprio odore è una gran soddisfazione.
(...)
Nel fosso la luna mi dice che mi trova bene,
che sono bello assai assai,
però mi consiglia di allungare un poco le basette
ché ci starei meglio visto il taglio del viso.
È una serata sul Tevere,
ecco salire dalle viscere dell’acqua,
abissi di placide onde urbanizzate,
note di violino zingaro che zigrinavano l’aria.
Salivano dolci
dai piloni portanti
di un ponte importante
e innalzandosi dai piedi
su fin sotto la pelle,
prendevano l’anima concessa e inebriata.
L’orizzonte secco abbracciava il buio
cullato da dolci bisbigli intonati.
«Accendi le stelle e comprendi le parole,
perché profumano, se senti, i vocaboli»
mi suggeriva quell’atmosfera
tra nuvole di suono e continuava,
e la voce era proprio identica alla mia:
e così sia.
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