Le poesie che abbiamo selezionato di questa giovane autrice messicana, provengono dal libro El reino de lo no lineal (Il regno del non lineare, FCE 2020), che ha meritato il Premio Aguascalientes. L’autrice è nata a Città del Messico nel 1986. La sua raccolta più recente è Progetto Manhattan (Antílope 2021). Ha vinto il premio Poetry International 2016, il Premio Nazionale Alonso Vidal 2017 e il Premio Bellas Artes 2019 per la traduzione della raccolta di Ocean Vuong. Ha ottenuto una borsa di studio per l’Università di New York. Sue poesie sono apparse su diverse riviste e sono state incluse nelle antologie Fuego de dos fraguas (2016), Voces Nuevas (2017) e Liberoamérica (2018). Le versioni in italiano sono di Alberto Pellegatta.
LAZZARO I
Vengo a morire un giorno d’alto mare a Aruba
con le pinne e il boccaglio indosso.
So che sto morendo. Non c’è peggior dolore
della paura, bisogna dirlo.
Per il resto, non posso dire addio. Neppure
al corpo. All’improvviso è sempre tardi.
Voglio gridare ma l’acqua mi chiude la bocca.
Da allora sento in un orecchio,
anche nel deserto, il moto ondoso dei Caraibi.
E perfino il mio nome, Celso,
si è un po’ salato.
Voglio dire due cose. Primo:
tutti quelli che affogano in mare muoiono di sete.
Punto a capo. Il tempo, proprio lì,
sul fronte, è pura oreficeria.
Mi alzo dal corpo
come un bambino in letargo dal suo letto
e mi guardo da sopra versato in moto ondoso.
In quel momento ho saputo che siamo assai leggeri:
pesiamo meno dell’acqua salata.
Mi distraggo. Erano due cose
che volevo dirvi. Primo:
la morte è una moltitudine. Da sopra
posso guardare, strana apparizione,
gli altri affogati,
tutti lì, restituiti alla loro morte,
acrobati dell’acqua e del respiro,
trasportati dalla lingua avida del mare.
Ognuno ripetutamente, per secoli,
attraversati dall’atto sempre alieno del morire,
incalliti nella loro morte o rassegnati,
ma muoiono tutti, bisogna dirlo,
con la morte al collo,
che trabocca il suo sale dalle tasche. A quel punto
sono uno di loro, quasi,
sono poco nutrimento, ancora tiepido,
e mi domando: quale pesce mi mangerà il cuore?
Ma non sono morto
abbastanza: il mio nome, Celso,
mi è tornato in bocca
e l’arbitrio del mio corpo ama. Due cose,
solo due, voglio dirvi: ciascuno ha il suo
ma il mio dio è questa tiepida acqua illuminata.
Mi attraversa il suo fuoco liquido e sveglio,
sempre, ogni mattina, a volte,
con il moto ondoso proprio di questo mare al largo,
il mio sangue una marea tiepida e salata, iridescente.
E faccio finta che la morte sia il mio compleanno.
*
LAZARO I
Vine a morir un día de alta mar en Aruba
con las aletas y el esnórquel puestos.
Supe que me moría. No hay peor dolor
que el miedo, hay que decirlo.
Por lo demás, no pude despedirme. Ni siquiera
del cuerpo. De pronto siempre es tarde.
Quise gritar pero el agua me calló la boca.
Desde entonces en un oído escucho,
aunque esté en el desierto, oleaje del Caribe.
Y hasta mi nombre, Celso,
se me ha salado un poco.
Quiero decir dos cosas. Primero:
todos los ahogados en el mar mueren de sed.
Punto y aparte. El tiempo, allá mismo,
en el anverso, es pura orfebrería.
Me levanté del cuerpo
como un niño aletargado de su cama
y me miré desde arriba mecido en el oleaje.
Supe entonces que somos tan ligeros:
pesamos menos que el agua salada.
Me distraigo. Eran dos cosas
que quería decirles. Primero:
la muerte es multitud. Desde arriba
pude mirar, extraña aparición,
a los demás ahogados,
todos ahí, devueltos a su muerte,
acróbatas del agua y del respiro,
llevados por la lengua ávida del mar.
Cada uno una y otra vez, durante siglos,
atravesado por el acto siempre ajeno de morir,
empedernidos en su muerte o resignados,
pero todos muriendo, hay que decirlo,
con la muerte en cuello,
rebosando su sal en los bolsillos. Entonces
soy uno de ellos, casi,
soy por poco alimento, tibio todavía,
y me pregunto: ¿qué pez se comerá mi corazón?
Pero no me morí
lo suficiente: mi nombre, Celso,
se me volvió a la boca
y el albedrío de mi cuerpo quiso. Dos cosas,
sólo dos, quiero decirles: cada quien tiene el suyo
pero mi dios es esa agua tibia iluminada.
Me atraviesa su lumbre líquida y despierto,
todavía, cada mañana, a veces,
con el oleaje propio de ese mar adentro,
mi sangre una marea tibia y salada, iridiscente.
Y hago de cuenta que la muerte es mi cumpleaños.
*
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*
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*
LAZZARO V
Vado in cucina per un bicchiere d’acqua. Succede in quel momento. L’ultima cosa
che ricordo è il suono del vetro sul pavimento.
Non so se mi sono svegliato, se sono ancora vivo. Sono il mio stesso colophon
di ossa e abitudine. Sono morto e avevo in mano
un semplice bicchiere d’acqua. Siamo, in fin dei conti, tutto
ciò che facciamo cadere.
*
LAZARO V
Fui a la cocina por un vaso de agua. Sucedió entonces. Lo último
que recuerdo es el sonido del vidrio contra el piso.
No sé si desperté, si sigo vivo. Soy mi propio colofón
de huesos y rutina. Me morí y sostenía en la mano
un simple vaso de agua. Somos, a fin de cuentas, todo
lo que dejamos caer.
*
ORFELIA NON TROVA IL FOGLIO DI RESIDENZA
Tocco ciò che mi rimane. Ciò che bisognerà che tenga.
Dio cambierà i denti. Si attenueranno i cerchi,
gli anni. Succederà ciò che succede sempre:
il tempo. Da ora mi copro con ciò di cui avrò bisogno:
la luce questa sera sul terrazzo, sette scampanate
sulla chiesa del corpo. Un’ora
circondata dalla pioggia.
Misuro la mia discordanza. Rimonto l’usura.
Pronostico la fine della mia nascita.
La città ha cambiato posto.
Qualche metro, dicono, si muove. Ormai non è più
dove siamo stati. E non sono più risalito sul terrazzo.
Siamo solo questo: due pietre su un graticcio,
nome a nome. Adesso penso:
le mie ossa di latte sulle tue ossa. Morte a morte.
Forse saremo sempre ciò che non siamo mai stati.
Non rovine. Mappa di fratture. Città di crepe.
Il mio corpo sagomato dal tuo. Tutto ciò che era morbido.
Il mio unico. Il mio sempre. La cucitura della mia pelle.
Anche il nemmeno, il posto dove iniziano
le ultime volte. Il per caso e la sua sbronza da vino cattivo.
Qualche volta mia nonna, con la dentatura posticcia,
dall’ultima curva della sua schietta vecchiaia diceva:
scegli ciò che vuoi portarti via. Due o tre momenti.
La proroga degli ultimi giorni. Ancoraggio e penitenza.
Tutto ciò che nessuno ricorda, e neanche noi. Il paradiso
sepolto nel vecchio giardino, animale domestico morto.
Da adesso fino a quel momento
tutto è periferia. Se avesse detto: amore,
non ti fermare. La morte inizia
a mordicchiarci le caviglie. E non arriveremo insieme
da nessuna parte. Saremo sete, saremo
sedimento. Espliciti cadaveri spenti.
Teschi addormentati
al fuoco lento dei crematori.
*
ORFELIA NO ENCUENTRA UN COMPROBANTE DE DOMICILIO
Toco lo que me queda. Lo que habrá de quedarme.
Dios mudará de dientes. Se atenuarán los círculos,
los años. Pasará lo que pasa siempre:
el tiempo. Me abrigo desde ahora con lo que me hará falta:
la luz esa tarde en la azotea, siete campanadas
en la iglesia del cuerpo. Una hora
rodeada por la lluvia.
Mido mi discordancia. Remonto la usura.
Pronostico el final de mi nacimiento.
La ciudad se ha mudado de sitio.
Unos metros, dicen, se desplaza. Ya no está
donde estuvimos. Y no he vuelto a subir a la azotea.
Fuimos sólo esto: dos piedras sobre una barda,
nombre a nombre. Pienso ahora:
mis huesos de leche sobre tus huesos. Muerte a muerte.
Tal vez seremos siempre lo que no fuimos nunca.
No ruinas. Mapa de fracturas. Ciudad de grietas.
Mi cuerpo hormado por el tuyo. Todo lo que era blando.
Mi único. Mi siempre. La sisa de mi piel.
Incluso el tampoco, el sitio donde empiezan
las últimas veces. El acaso y su resaca de mal vino.
Alguna vez mi abuela, dentadura postiza,
dijo desde la última esquina de su viudez escueta:
escoge lo que has de llevarte. Dos o tres momentos.
La prórroga de los últimos días. Anclaje y penitencia.
Todo lo que nadie recuerda, ni nosotros. El paraíso
enterrado en el viejo jardín, mascota muerta.
De aquí hasta entonces
todo es periferia. Hubiera dicho: amor,
no te detengas. La muerte empieza
a mordisquear nuestros tobillos. Y no llegaremos juntos
a ninguna parte. Seremos sed, seremos
sedimento. Explícitos cadáveres apagados.
Calaveras dormidas
al fuego lento de los crematorios.
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