Dopo un silenzio durato qualche anno, anche se interrotto da testi su riviste e antologie come l’Almanacco delle Specchio (Mondadori 2005) o il Bisestile (EDB 2016), Silvia Caratti riprende il posto che aveva lasciato con la plaquette Lettere per un ritorno (Arca Felice, Catania 2019, con disegni di Massimo Dagnino). Il tema della morte non è una semplice riflessione, ma configura la scrittura come un rito di passaggio. Le poesie non portano al superamento di una situazione opprimente («Quando questa notte eterna avrà fine / e finalmente non dovrò più sognare?»), piuttosto a una sua esplorazione, a un confronto con la sua vicinanza. I testi sono parti strappate a ciò che non ha un «ordine». Registrazioni dei momenti che le hanno formate e che per questo continuano a trasmettere: insediate al nostro interno «parlano di noi». Tra le altre dimensioni c’è quella amorosa, strutturata sulla componente fisica. Una forza estrema si convoglia in gesti minimi a rintracciare i limiti corporei, ciò che nel buio si oppone allo sfaldamento: «nell’assoluto silenzio / lasciar parlare solo la linea del tuo orecchio, / il colore del mio occhio, / i tuoi seni che immagino piccoli nella mia mano / e la bocca appoggiata all’incavo della spalla».
Davide Cortese
Da LETTERE PER UN RITORNO
Se non sento la tua voce e allora che sei più vicina.
Se non guardo i tuoi occhi loro mi vedranno.
Se non sei qui sei ancora più forte.
Stai sull’ultimo parallelo,
sull’orbita più lontana
del più remoto dei satelliti
che è il mio cuore.
Quando questa notte eterna avrà fine
e finalmente non dovrò più sognare?
*
Sarà lei a portare quel calore così lontano
e misterioso, così diverso da me e dal mio pensare?
Più mari stanno in mezzo a noi:
il mare mio
quello dove navigo io al limite della libertà,
il mare suo
quello dove l’amore è sempre e soltanto verità
e poi c’è il mare dove i pesci vivono nel silenzio più assoluto
e nulla sanno di noi, e non sentono mai
se li pensiamo o li desideriamo.
*
Come pugili storditi
o soldati svenati nel buio della trincea
saltare su e correre al centro del campo,
arrendevoli nella penombra di una stanza a pagamento
dopo milioni di parole notturne:
non dire più niente
nell’assoluto silenzio
lasciar parlare solo la linea del tuo orecchio,
il colore del mio occhio,
i tuoi seni che immagino piccoli nella mia mano
e la bocca appoggiata all’incavo della spalla.
Non conoscersi affatto
è conoscersi troppo.
L’immagine è di Massimo Dagnino
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