Svaghi / Un racconto di Paolo Chionni
- Redazione
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«Pronti... adesso!». L’onda arrivò lunga e potente, senza frangere ma incuneandosi nell’apertura fra le rocce. I tre si immersero contemporaneamente e con una capriola poco profonda furono sospinti a mezz’acqua lungo quel tunnel di una quindicina di metri, stretto ed irto di rocce ai lati. Con le sole maschere e pinne, attenti a non ferirsi e a mantenere la distanza dalle pareti acuminate l’apnea li risucchiò nell’oscurità del cunicolo. Ma presto il chiarore li accolse e con un paio di decise pinnate verso l’alto le loro teste ricomparvero all’unisono all’interno di quella fantasmagorica cattedrale marina: una grotta che aspirava luce da quel passaggio sommerso e la rigettava sulle pareti ed il soffitto altissimo, cangiante in quel bacino marino calmo e fatato.
Riflessi verdi, blu, bianchi che rendevano gli occhi dei ragazzi cerulei, smeraldo, illuminati, profondi.
Erano soli in quel tempio soprannaturale. Ma parlavano piano, sussurrando. Come in chiesa. L’acustica era amplificata dall’imponenza, l’eco delle loro voci intensificato dalle pareti incombenti.
Galleggiavano al centro dello specchio d’acqua estasiati.
Ritornando dolcemente alla realtà sentirono in lontananza, ovattato, il borbottio meccanico del motore. Il fido Luc, marinaio meccanico cuoco tuttofare, li attendeva fuori con il tender per riportarli a bordo.
Controvoglia all’idea di abbandonare quel luogo nuotarono piano, con rispetto, verso l’imboccatura sommersa. Contrastando con bracciate e pinnate risolute la forza della corrente entrante riemersero nella realtà luminosa del Mar Egeo invernale.
La temperatura dell’acqua era scesa di qualche grado e, infreddoliti, accolsero compiaciuti le birre che il provvidenziale Luc avevo portato per loro nel piccolo frigorifero portatile.
Si sentivano per l’ennesima volta complici di un’esperienza meravigliosa. Quella caverna così nascosta e inaccessibile, solo per loro, quasi a suggellare un’amicizia. Come le rischiose cacce subacquee, le veleggiate con il brutto tempo, le tempeste, gli approdi fra cannibali e sirene...
All’imbrunire asciutti e rifocillati in pozzetto si raccontarono la gioia di quel pomeriggio trascorso. I visi abbronzati con premature rughe da marittimi, le mani scure e indurite dalle miglia navigate, i tre amici stavano godendosi quelle giornate di sole dicembrino senza alcuna fretta di arrivare al Canale e poi giù a sud per iniziare le settimane sfiancanti di navigate e immersioni con l’armatore, un signorotto fanatico di bombole e fotografie subacquee.
Sapevano che a Port Said si sarebbero annoiati dopo alcuni giorni fra agenti intriganti, accattoni, militari corrotti, muezzin, mercati già visti.
Erano in anticipo sulla tabella di marcia, il Mediterraneo era stato benevolo. Il ricordo del brutto tempo di altre partenze atlantiche li aveva accompagnati nella discesa verso il Sud. Potevano beneficiare di almeno un paio di settimane di tregua, per i loro svaghi.
Il pellegrinaggio alla caverna incantata era stato il primo dei loro obiettivi.
Eric era un prorompente inventore di passatempi. Studiava sommariamente tecniche di attività mai praticate prima e vi si gettava a capofitto per alcuni periodi, temerario, ostentando conoscenze che non aveva.
La sua maestria in navigazione derivante dal passato di ufficiale di Marina mercantile era l’opposto della leggerezza con cui si gettava in altri mille svaghi.
Sapevano che scendeva in profondità con bombole mai controllate, senza aver frequentato alcun corso, autodidatta e ignaro di tabelle e decompressioni. Egli stesso aveva raccontato di aver indossato la prima bombola sul peschereccio del padre per liberare una rete, sceso a quaranta metri senza alcun patema, fiero del suo coraggio spericolato. Era un fruitore di oggetti inutili e tecnologici. Sfoggiava sicurezza e i suoi amici avevano imparato a non prenderlo troppo sul serio.
Per quelle settimane di pausa aveva stivato un colorato windsurf futuribile. Il resto dell’equipaggio era fermo a scafi pionieristici e a campionati lacustri preistorici.
Il mattino seguente all’ancora in una baia protetta ma attraversata da potenti raffiche di vento fresco, Eric tolse dagli imballaggi il missile acquistato in qualche svendita.
Una minuscola tavoletta e un albero creato in laboratorio con qualche fibra segreta, la vela gialla e trasparente impalpabile come un’ala magica.
Trastullandosi con un manuale mai aperto, si diede all’armamento presentandoci derive in carbonio, snodi creati da ingegneri spaziali, pinnette dalle forme impossibili.
In coperta le aspettative erano alte. Tutti non vedevano l’ora di provare quel divertimento.
Il Dinghy con Luc attendeva in acqua girovagando e borbottando. Luc non sarebbe mai stato in grado di infilare un filo nella cruna di un ago, strabico com’era, ma avrebbe potuto intuire una testa umana alla deriva a miglia di distanza.
Quando tutto fu pronto la cosa misteriosa fu messa in acqua. Eric indossò una muta nuova di ultima generazione, ideata con materiali d’avanguardia e comprata in un mercatino dell’usato.
Scoprirono subito che la tavoletta non galleggiava ma rimaneva ben sotto il pelo dell’acqua e una manovra complicata per marinai di altre epoche avrebbe dovuto essere innescata da Eric, con l’albero in perpendicolare, un piede nelle cinghie posizionate a casaccio, vela prima controvento poi gonfiata all’improvviso, boma tutto in avanti e compagnia bella.
Eric aveva letto di questa tecnica su una rivista dal barbiere del suo caruggio ligure, poco prima dell’imbarco.
Un miracolo permise all’uomo di salpare in qualche modo e lo spettacolo di quella tavoletta esplosa dall’acqua e planante a velocità impossibile con Eric aggrappato al trapezio del suo boma portò l’entusiasmo alle stelle.
Tutti desideravano volare. Il surf fu presto perso di vista ma l’intrepido Luc, in piedi con equilibrio da giocoliere, ne seguì la sorte con il veloce gommone.
Le ore trascorsero e qualche preoccupazione si insinuò tra i marinai. All’orizzonte di quella baia immensa non si vedevano vele, né uomini o scialuppe.
Il vento pomeridiano rinforzò e i ragazzi iniziarono a chiedersi se avrebbero dovuto iniziare le ricerche con la goletta.
La temperatura scendeva gradualmente e nessuno riponeva troppa fiducia nella muta all’ultimo grido di Eric.
Accesero il motore e si prepararono a salpare l’ancora per partire al soccorso. Ma quando l’uomo a prua alzò lo sguardo dal verricello già sferragliante intravide qualcosa all’orizzonte e, poco dopo, con un grido di gioia annunciò al timoniere che i dispersi stavano arrivando.
Lo spettacolo desolante di Eric sommerso dalla vela piegata in due, l’albero spezzato e la tavoletta trainata mestamente, il viso occhialuto dell’impavido Luc deteriorato dalla stanchezza e dal freddo, con cui non aveva dimestichezza, raccontarono dello svago finito tristemente al largo dopo l’entusiasmante e irripetibile planata.
Durante la cena, tra ciotole fumanti e bicchieri di vino rosso, affondò per sempre l’argomento windsurf moderno. Tra le risate, Eric propose un’apnea su Atlantide, una decina di miglia più a sud.
Le ore di navigazione non fecero progredire molto la pesante goletta in acciaio per via di una bolina stretta e faticosa che li riportò con i piedi per terra. Erano nel Mediterraneo in pieno inverno, dopotutto.
L’ancoraggio sottovento fu eseguito prima del tramonto e gli amci si diedero da fare a studiare le carte per l’avventura del giorno seguente.
*
Kekova, dove un’antica città giace sotto il pelo dell’acqua, pomposamente ribattezzata Atlantide. Il giorno seguente al rituale della preparazione di mute, maschere e pinne fu aggiunta la novità di piccole macchine fotografiche subacquee. Aggeggi da pochi soldi acquistati da Eric chissà dove. Nessuno era un vero appassionato di fotografia subacquea. Accompagnare gli ospiti bardati di flash, telecamere stagne, custodie ingombranti, fari e compagnia bella, li avevano resi scettici sul piacere di immersioni così complicate. Il più delle volte si trattava di scoprire e riprendere qualche minuscolo raro animaletto che si aggirava guardingo sul fondo, nemmeno buono da mangiare. Si immaginavano poi serate in eleganti salotti di città con mogli e amici annoiati alla visione di filmini e diapositive sempre uguali, didascaliche, da commentare con falso entusiasmo.
Ma , al diavolo… Non capitava tutti i giorni un’antica città sommersa e intatta.
L’infreddolito ed imbacuccato Luc li traghettò fino alla costa, il più vicino possibile al sito archeologico.
Ciò che videro li ricompensò largamente dell’avere sfidato impunemente l’acqua invernale del Mediterraneo.
Il mare cristallino, degradante dall’azzurro al verde al blu, attorniava l’isoletta, con le rovine dell’antica civiltà Licia. Terremoti, razzie, maremoti. La Turchia con i bizantini, i romani, gli ottomani, tutta quella storia, quei popoli, splendori e catastrofi di cui per una volta si sentivano parte.
Religiosamente, soli e intimiditi, pinnarono piano dalla costa con le rovine emerse verso il largo ed ecco muri, colonne, cortili, pavimenti sul fondo del mare. Si indicavano reciprocamente bellezze e colori.
Un’atmosfera onirica li avvolgeva. Solo in un sogno si sarebbe potuto provare la sensazione di volare, galleggiare nuotando sopra una città, per strade dove gente aveva passeggiato, stanze dove gli antichi dormivano, mangiavano, scrivevano. Alcuni pavimenti colorati come mosaici attirarono le loro apnee silenziose, il desiderio di sfiorare, accarezzare quei muri era latente ma con umiltà, senza mancare di rispetto...
Perduti in quel labirinto emozionante di sensazioni dalla superficie guardarono in su, verso altre rovine, un’altra città antica, forse un castello, steli, monumenti funerari. Non era come leggerne sui libri o sentire i racconti dei professori nelle polverose aule delle loro giovinezze, queste storie erano qui da vedere e loro ci stavano nuotando dentro.
Usciti da quel dedalo di suggestioni agitarono le braccia per chiamare il loro Caronte con gommone, timorosi di alzare la voce rompendo l’incanto di quel luogo sacro.
Come sempre accadeva loro dopo le emozioni forti, nessuno parlò per un po’. Quando più tardi Luc chiese loro se avessero scattato fotografie, si accorsero di aver dimenticato di farne, persi nel groviglio delle loro emozioni.
I giorni liberi stavano per finire, tra poco avrebbero dovuto mettere prua a sud. Ma c’era ancora tempo per una battuta di pesca sulle coste turche.
Smaniosi di prede commestibili, scovarono sulla carta una punta promettente, con una buona caduta di massi e rocce. Ci sarebbe stata corrente, l’ideale per i pesci di passo, e le tane tra le rocce lasciavano ben sperare riguardo a cernie, saraghi e orate.
I tre amici conoscevano meglio le prede tropicali, le acque calde equatoriali, con squali e barracuda a aggiungere adrenalina, ma quel mare d’inverno era uno spettacolo e una chimera.
La mattina tolsero dai gavoni le mute pesanti da otto millimetri, con cappucci e calzari. Non erano abituati e si sentivano legati, gravati nei movimenti, maldestri.
Retini, lunghe pinne, pugnali, torce, guanti stagni e i lunghi arbaleti polinesiani, così inadeguati per la pesca in tana, furono adagiati sui paglioli del gommone con il devoto Luc ai comandi.
La visibilità ottima, una leggera corrente e massi ricoperti da vegetazione, buchi e tane invitanti, qualche movimento furtivo sul fondo diede il via alla caccia.
Come sempre, i pattuiti propositi di stare vicini furono immediatamente accantonati: ognuno per sé, competizione, frenesia atavica di trovare una buona preda prima degli altri. Le vibrazioni soffuse dell’elica che inviava il guardingo Luc dalla superficie bastavano a renderli sereni.
Seguendo il loro istinto di pescatori si ritrovarono però appaiati davanti a una grossa tana in cui si scorgeva un branco di saraghi pizzuti, l’uno di fianco all’altro, come in fila per una parata.
Un tiro fortunato ne colpì due in una volta sola. I retini si riempirono presto. Una spigola solitaria, brune cernie mediterranee curiose, e la felice visione di una splendida orata in tana.
Increduli per tanta abbondanza ritornarono a favore di corrente verso la punta. Un improvviso cambio di colore di una roccia, percepito con la coda dell’occhio da Eric lo indusse a indagare piu’ a fondo. Concentrandosi su un grosso sasso, lo vide muoversi impercettibilmente e divenire più scuro in un battere di ciglia: un grosso polipo, una piovra eccentricamente fuori tana durante il giorno.
Eric disarmò un elastico dal suo arbalete e innescò il secondo meno teso. Una capriola silenziosa e poi si lasciò planare giù, verso quella preda buona e intelligente. L’animale sospettò il pericolo e improvvisamente cangiante e vivido si spinse veloce verso il suo buco poco distante. L’entrata era poco più larga di due pugni chiusi e con la torcia Eric illuminò l’ animale che si sentiva ormai al sicuro. Infilò il lungo fucile all’interno del cunicolo mirando alla grossa testa tondeggiante.
L’asta partì senza uscire completamente, impattando a metà e penetrando nel corpo della povera preda che rilasciò terrorizzato nuvole di nero inchiostro. Accecato dal buio Eric infilò il braccio per recuperare l’asta impugnandola il più possibile vicina al corpo. Non voleva correre il rischio che si staccasse o si piegasse il tenero acciaio.
Si sentì avvinghiare la mano guantata e il braccio fino al gomito da tentacoli vischiosi. Sapeva che sarebbe successo e con uno strattone forte pensò fiducioso di liberarsi e tirare verso di sé l’asta. Ma la forza di quel grosso polipo sembrava diversa. Non ancora preoccupato Eric si diede da fare puntando i piedi su uno sperone sporgente per liberare il braccio, ma una forza potente lo attirò verso il buco. Che razza di piovra degli abissi poteva avere una tale veemenza? Mollò l’asta e sostenendosi con la mano libera allo scoglio vicino con sforzo cercò di lottare divincolandosi da quella presa d’acciaio. Avvertì uno strappo, un urto sulla mano lungo l’osso dell’avambraccio e per la prima volta provò paura.
Un lampo di terrore che capì di dover soffocare prima che divenisse affanno.
Sentì il primo desiderio d’aria e alzò la testa per quanto vi riuscì quasi a richiamare luce e ossigeno.
Ebbe la lucidità di fare un gesto di inequivocabile urgenza verso l’alto.
Il dolore al braccio lo attanagliò dandogli un rigurgito di combattività. Provò ancora nonostante le fitte lancinanti al polso a contorcersi per sfuggire all’incubo di quella presa.
Intuì l’arrivo del panico quando la forza oscura arretrò verso l’antro, come a volerlo trascinare con sé.
Ad occhi chiusi sognò la seducente visione di un mondo subacqueo che lo attendeva ma di soprassalto fu scosso da forti mani salvifiche che forzarono la preda a rilasciare il suo cacciatore.
Abbandonandosi tra le braccia dei suoi compagni che lo condussero in superficie ritornò in sé e risucchiò nei polmoni macilenti tutto ciò che riuscì in un solo liberatorio respiro.
Fu aiutato da Luc ad adagiarsi sul pagliolo del dinghy dove rimase a occhi chiusi prostrato e tremante.
Quando l’asta e il fucile furono recuperati dai compagni e si fu riscaldato con un sorso di elisir ebbe il coraggio di guardarsi il polso.
Il poco che rimaneva dello spesso guanto stagno ridotto a brandelli palesava i segni rosso blu dove il suo valoroso avversario aveva scatenato la propria forza, e una crudele ferita purpurea riluceva al posto del suo magnifico cronometro subacqueo, strappato dalla bestia marina.
La sera in pozzetto Eric ammise che la lotta era stata dura e leale, quello era un gran polipo ed era giusto che si fosse tenuto qualcosa di suo in cambio.
Non gli dispiaceva pensare che quella piovra si sarebbe fatta beffe di loro laggiù, guarita dalle ferite nella sua tana, sfoggiando con gli amici il trofeo d’acciaio piazzato ad arte su uno dei suoi tentacoli più grossi.
L’indomani avrebbero fatto rotta su Port Said , il tempo degli svaghi era finito.
* Paolo Chionni è nato a Bergamo nel 1956 e, dopo una laurea in giurisprudenza e il servizio militare, è partito in barca a vela e non è più tornato. Dagli anni Ottanta naviga a più riprese nei tre oceani, nel Mar Rosso e nel Mediterraneo. Attualmente vive con la famiglia alle isole Seychelles. Il racconto che pubblichiamo proviene da una raccolta inedita, intitolata Racconti d’acqua.
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