
L’uomo raccontava la leggenda come una sfida al gruppo di visitatori che contemplavano la colonna di acciaio di Mehrauli, nella periferia di Delhi:
- Chi appoggia la schiena alla colonna di Chandragupta - disse -, la circonda con le braccia e riesce a toccarsi le mani da dietro, esaudirà il proprio destino.
Sarà stato il fatto che la guida ci avesse provato altre volte e fosse ormai rassegnato al fallimento? Io, come il resto del gruppo, guardavo la superficie della colonna che tanti tentativi di abbracciarla da dietro avevano pulito fino a imprimergli una lucentezza unica, tentativi fatti con la certezza di uscirne vittoriosi – sicuramente i visitatori si erano detti che, in fondo, la colonna non era poi così grossa – e alla fine sono rimasti sorpresi per la distanza che intercorre tra ciò che avevano supposto e ciò che avevano concluso. A differenza del gruppo, ciò che percepivo, ciò che adesso credo di aver percepito di quel pulito logoramento dell’acciaio, era il ricordo contrapposto, all’altro capo del mondo, delle macchie sugli alberi della cuccagna di Guayaquil.
Nelle feste di quartiere e di paese, i bambini si arrampicano sul tronco senza corteccia dell’albero della cuccagna. A volte si usano le canne di bambù, imbrattate di cebo, su cui scivolano uno dopo l’altro. Deve essere qualcosa di più della forza, qualcosa di più dell’abilità, forse la fame di caramelle e biscotti, o solo l’allegria per i giocattoli di plastica – una macchinina, un aeroplano, una bambola sorridente e inerte nel vuoto, che aspetta di essere riscattata – cosa che incita i bambini e gli da quella spinta necessaria a scalare il palo scivoloso in mezzo alla strada o alla piazza. A torso nudo, scalzi, coperti appena da pantaloni rattoppati e sfilacciati, provano a salire e gli si impregna sulla pelle il segno dei progressi e degli scivoloni. Non mi lasciavano salire, come non lo permettevano a nessun altra bambina, o per lo meno nessuna ci provava o lo chiedeva. La proibizione di mia madre di sporcarmi la blusa era tacita, e non è che una volesse fare l’uomo ma è che non potevamo neanche giocare.
A Mehrauli, invece, con quella colonna di sei tonnellate, senza regali sulla cima ma con l’astratta promessa di un premio invisibile e futuro, la sfida era diretta e pulita, l’opportunità concreta, se fossi riuscita ad agire a tempo, perché i miei genitori quando siamo lontani da casa è come se abbassassero la guardia. Non ci si doveva arrampicare, né macchiarsi, né esibirsi, solo abbracciare la colonna. Non aspettai neanche il mio turno. Feci un passo.
Quando mi girai per appoggiare la schiena alla colonna, vidi la sorpresa sui volti disarmati dei miei genitori e dei miei fratelli. Appoggiai la schiena alla colonna. Era fredda e rigida nonostante fosse esposta al sole da tanti secoli. Allargai le braccia indietro, con le clavicole in tensione e archeggiando il torace fino a marcare i capezzoli come solo io potevo sentire, nel frattempo chiudevo gli occhi e mi si apriva un nuovo occhio sulla nuca, che seguiva il percorso cieco delle mie mani, tentacoli che viaggiavano intorno alla colonna per un appuntamento improbabile. Quell’occhio in allerta guardava, senza vederli, anche i pali della cuccagna di Guayaquil. Da una parte, di là, proveniva la folgorante macchia nella mia memoria e da un’altra, di lì, la cupa e spettante lucentezza. La luce verticale e la macchia diventavano una sola luce, una colonna. Le mie mani viaggiavano lungo la colonna che prometteva fortuna per un tempo e uno spazio futuro che in quel momento non conoscevo.
Ci hanno poi provato anche altri. Mia madre non ha voluto, ma ci hanno provato i miei fratelli. Per ultimo mio padre. Non sembrava molto convinto. A fronte alta, eretto, lo ha fatto come chi vuole cambiare argomento. Per un momento ho pensato che se le sue mani non riuscissero a toccarsi, che avrebbe afferrato la colonna e, con tutta la sua forza, l’avrebbe estirpata. Quando le sue dita si sono toccate, non ha sorriso, non ha guardato nessuno, non ha detto nulla nonostante avesse trionfato. Si è spostato lentamente dalla colonna e ha evitato di guardarmi.
Scrivo queste righe e recupero nomi e luoghi. Nella casa di Guayaquil adesso viviamo solo io e mio padre. È seduto in giardino. Ogni sera sistema la sedia tra le radici del mango che ha portato in seme da quel viaggio in India e che ormai supera l’altezza della casa e agita le sue foglie insieme al vento. Alla sua ombra riposa mio padre, incurvato e bianco, con i suoi occhi ciechi. Sembrano ispirati e docili i ciechi. Ma è un’illusione. Il loro udito e il loro olfatto è sempre in allerta per qualsiasi bisbiglio o aroma. A volte scopre quello che gli cucinerò prima che gli odori lo raggiungano. Sicuramente sente come graffio con la penna la carta su cui scrivo. Non so se intuisce che mi sto domandando perché non ha festeggiato con me il nostro trionfo a Mehrauli.
* Leonardo Valencia è nato a Guayaquil nel 1969 e ha vissuto anche in Spagna. Ha pubblicato diversi volumi, tra racconti, romanzi e saggi. Di narrativa ricordiamo, tra gli altri, La luna nómada (2020), La escalera de Bramante (2019), El desterrado (2000), El libro flotante (2006) e Kazbek (2008), tutti ampiamente riconosciuti dalla critica. Ficción progresiva (2022), da cui proviene il racconto inedito che proponiamo nella prima traduzione italiana di Alberto Pellegatta, riunisce tutti i racconti dell'autore. La foto è di Albarrán Cabrera.
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